Ci sono tanti modi per chiudere la bocca alle voci non omologate. Il fascismo vietava direttamente la pubblicazione dei contenuti scomodi e incarcerava i giornalisti non allineati. Qualche anno più tardi la strategia censoria consisteva nel mettere l’informazione sotto il rigido controllo dei governi. Si chiamava P2, loggia massonica che poi fu sciolta ma con alcuni dei suoi illustri accoliti, tuttora in parlamento, ad esercitarne la pervicace continuità.
Oggi il bavaglio si avvale di strumenti più sottili ma non meno temibili. Uno di questi è rappresentato dalle cosiddette “querele temerarie“: in pratica se un’inchiesta giornalistica dà fastidio al potente di turno, politico, economico o religioso che sia, scatta la querela. Con richiesta milionaria di risarcimento. E così, il più delle volte, l’autore smette di proseguire il suo lavoro di documentazione intimorito dal procedimento legale.
Il 16 dicembre 2012 la giornalista Milena Gabanelli lancia un servizio dal titolo “Ritardi con Eni” per fare chiarezza sull’attività del gruppo produttore di energia. Ieri l’azienda, sesto gruppo petrolifero mondiale per giro di affari, con un atto di querela di ben 145 pagine accusa Report di averne leso l’immagine, e fa richiesta di risarcimento: 25 milioni di euro.
Chi si sente diffamato ha tutto il diritto di tutelarsi ma è piuttosto evidente che una cifra di queste proporzioni si configura come un palese tentativo di intimidazione. Una minaccia non pronunciata ma che di fatto suona così: “la prossima volta ci penserai bene prima di occuparti di noi”.
La Gabanelli ha vinto praticamente tutte (tante) le cause a cui è stata sottoposta. Sicuramente anche in questo caso non arretrerà di un passo e non chiederà nemmeno all’Eni di ritirare la querela per dimostrare, come ha fatto in ogni circostanza, la veridicità delle sue inchieste.
Normalmente questo tipo di cause non vanno a compimento (anche perché occorrono svariati anni per completare l’iter dei dibattimenti). E così il querelato viene assolto “perché il fatto non costituisce reato”. Ciononostante il querelato ha comunque incassato la vittoria che si proponeva fin dall’inizio:bloccare l’inchiesta giornalistica nei suoi confronti.
Per questo il meccanismo perverso dell’intimidazione preventiva va assolutamente demolito. Come afferma l’avvocato Domenico D’Amati, membro del comitato giuridico di Articolo21 e molto competente sulla materia, “con le querele temerarie si verifica che lo strumento giudiziario è utilizzato con scopi intimidatori. Tra l’altro la Suprema Corte di Cassazione ha iniziato a recepire le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’Uomo, laddove questa afferma che il diritto all’integrità della reputazione, e il diritto alla riservatezza cedono di fronte alla libertà di informazione”.
Su questa materia il parlamento ha avviato un lavoro bipartisan nella passata legislatura. Un iter che ovviamente giace ora impolverato nei cassetti.
Sul sito Change.org lanciamo una petizione per chiedere che il nuovo parlamento voglia immediatamente mettere mano ad una revisione della materia che preveda una sostanziosa penalità nei confronti di chi utilizza strumentalmente questo tipo di richieste, condannando il querelante, in caso di sconfitta in sede giudiziaria, al pagamento del medesimo importo: se cioè chiedi 25 milioni di euro alla Gabanelli di risarcimento e poi perdi la causa la risarcisci della stessa cifra. E vince il diritto di informare ed essere informati. Dura lex sed lex.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/03/leni-chiede-25-milioni-per-zittire-gabanelli/549941/