Quindicesima edizione per “Amore criminale” la trasmissione a cui da anni è associata una Campagna di denuncia contro la violenza sulle donne e che anche quest’anno si avvale della collaborazione dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia di Stato. Due storie per ciascuna puntata: una donna che si è salvata e una donna che purtroppo è stata uccisa dal suo compagno, marito o ex. Anche quest’anno è l’attrice Barbara De Rossi a condurre il programma nel quale si alternano testimonianze vere, ricostruzioni di fiction e i contributi di esperti. Otto puntate in prima serata, dal 20 ottobre su Rai3.
La docufiction è il mezzo narrativo portante delle puntate di “Amore criminale”. E le immagini sono spesso molto crude…
Penso che sia uno strumento molto realistico e utile per rappresentare alcune storie. Un conto è raccontarle, altro è vederle rappresentate. Qualcuno le troverà sicuramente un po’ forti ma raccontano la brusca realtà, con i particolari di ciò che è veramente accaduto. E Matilde D’Errico (regista e curatrice del programma, ndr) è anche molto attenta a non spingere più di tanto nelle immagini e a conservare rispetto e delicatezza nella narrazione. La realtà infatti spesso è molto più cruda e violenta. Capisco in ogni caso che raccontare queste storie vere faccia un certo effetto…
Quanto e come può contribuire l’informazione per la sensibilizzazione sul tema della violenza?
Non basta mai. Perciò è importante ripetere trasmissioni come questa perché può succedere a tutti. E una buona informazione deve sapere mostrare quali sono i segnali, i campanelli d’allarme. Perché oltre al maltrattamento fisico ce n’è uno psicologico che si insinua ancora più profondamente.
“Amore criminale” tratta di casi finiti tragicamente ma anche di situazioni nelle quali la denuncia è stata determinante per evitare conseguenze drammatiche.
Noi spingiamo le donne a denunciare immediatamente ogni violenza fisica o psicologica subita anche se purtroppo, talvolta, cavilli e lentezze burocratiche non aiutano. E rimane un profondo senso di impotenza. Abbiamo trattato casi di ferimenti gravi a cui vengono inflitte pene insufficienti e le vittime delle aggressioni sono terrorizzate dal fatto che dopo una breve permanenza in prigione il loro aggressore possa uscire e fare loro di nuovo del male.
Servono pese più severe?
Assolutamente sì, le pene devono essere inasprite. E’ fondamentale che tali azioni siano punite dallo Stato in maniera esemplare. Soprattutto nei confronti degli stalker. E non si può aspettare che lo stalker arrivi alla violenza fisica. Quando qualcuno si permette di limitare la libertà personale altrui siamo già in presenza di un reato gravissimo. Sms, aggressioni verbali tra le mura domestiche o nei luoghi di lavoro sono già una spia importante. E già in questa fase bisogna intervenire con decisione.
Molte violenze non vengono denunciate. Per quale ragione? Paura di ritorsioni da parte dei loro aggressori?
Certamente ma ci sono anche altri aspetti. Una donna, che non è indipendente da un punto di vista economico, che non ha assistenza legale, e che magari non ha alcun appoggio dalla famiglia di origine non sa dove andare e quindi talvolta “sopporta”… Per questa ragione sono fondamentali i centri antiviolenza e il personale specializzato che può accogliere le donne e fornire loro l’aiuto di cui hanno bisogno. Assistenza, conforto, rifugio…
La scuola può contribuire?
Deve contribuire! E fin dai primi anni. L’educazione civica – e non se ne fa mai abbastanza – deve servire ad insegnare a costruire relazioni positive con gli esseri umani, maschi e femmine che siano, deve porsi il problema di come far maturare una sensibilità nei confronti dell’altro. Perché spesso nelle famiglie questo non viene insegnato. Ricche o povere che siano, non è una questione di ceto sociale.
Intervista a cura di Stefano Corradino pubblicata sul Radiocorriere Tv