Il 21 aprile è uscito l’ultimo lavoro discografico di Paola Turci, che celebra i suoi trent’anni anni di carriera affiancando dodici canzoni del passato, completamente riviste in un’inedita veste acustico-elettronica, a tre brani inediti: “Io sono”, “Questa non è una canzone” e “Quante vite viviamo”. Il singolo “Io sono”, scritto con Francesco Bianconi e Pippo Rinaldi “Kaballà”, ha anticipato la pubblicazione dell’omonimo album nato dalla necessità di ripercorrere l’itinerario artistico di Paola attraverso una mirata e personale selezione di brani che ne hanno segnato le tappe principali. È stato immaginato come un lavoro unitario, un’opera antologica riassunta in dodici canzoni e che trova nelle tre nuove canzoni l’ideale completamento.
Quali sono i criteri della tua scelta dei dodici brani?
I criteri sono molteplici e ci ho messo molto tempo per decidere perché ho riascoltato più volte tutto il mio repertorio (quattordici dischi pieni di inediti, ndr). La scelta è stata quella di assecondare le mie preferenze, quelle del pubblico, quelle rappresentative di ogni album e che mi hanno lasciato qualcosa di piacevole. Sono presenti infatti almeno due brani che nessuno conosce, canzoni nascoste, quasi dimenticate che appartengono ai primi album e che mi rimandano a un periodo in cui il contatto con la musica era felice. Canzoni che ho sempre tenuto nel cuore, con un bel testo e una poetica eccelsa per quegli anni. Mi permetto di dirlo perché sono brani che all’epoca non scrivevo io… L’aspetto importante è stato quello di tracciare un profilo, il più possibile somigliante a me: alcuni canzoni, come “Bambini” sono un mio documento di identità.
Cosa canterà sul palco?
Porterò “Io sono” che canterò per la prima volta dal vivo con i miei musicisti. E poi ho pensato di portare “Mani giunte” un brano che può essere d’aiuto a chi sente il bisogno di mandare qualcuno a quel paese. Non a caso il sottotitolo del brano è “Fuck you”. L’altra canzone con cui mi esibirò è “Stato di calma apparente”, che per lungo tempo è stato il brano-manifesto del mio stato d’animo e che non ho mai cantato sul palco di piazza San Giovanni. E poi spero di riuscire a fare una sorpresa un pò folle ed inconsueta…
Quale messaggio deve scaturire dal Primo Maggio in piazza?
Che il lavoro, insieme all’amore, rappresenta l’essenza della vita dell’uomo. Tuttavia è difficile chiamare “festa” il Primo Maggio perché oggi purtroppo c’è ben poco da festeggiare: sono anni molto difficili ma in questo momento le condizioni dei lavoratori – e dei non lavoratori – nel nostro Paese sono sempre più complicate e precarie.
Segui Stefano Corradino su twitter
Intervista di Stefano Corradino pubblicata sul Radiocorriere Tv