“Liberarci dell’idolatria del denaro che genera corruzione, abusi, disoccupazione, povertà, guerre. E la prima misura è ridistribuirlo, impedire quelle disuguaglianze che umiliano milioni di persone, costruire giustizia sociale e dunque la garanzia per ognuno di vivere con dignità”. L’auspicio di Don Luigi Ciotti, sacerdote, fondatore del Gruppo Abele e di Libera è quello di una Chiesa che torni all’intransigenza etica del Vangelo.
Qual è a suo avviso lo spirito guida di questo Giubileo voluto da Papa Francesco?
Lo ha detto lo stesso Papa annunciandolo: la misericordia. Che non è solo compassione, sentire su se stessi le ferite, le miserie, le fatiche degli altri, ma impegno per costruire giustizia in questo mondo. La misericordia non giudica, non discrimina, non respinge. Accoglie la povertà e la fragilità, sorregge le persone nel trovare un’autonomia, e se hanno commesso peccati di cui sentono il peso, sta loro vicina, aiutandole a cambiare. «Più grande è il peccato, maggiore deve essere l’amore verso coloro che si convertono» ha detto il Papa. E ha aggiunto: «Dio perdona tutti e sempre». Ecco allora cosa significa per la Chiesa – come per tutta comunità dei credenti – questo Giubileo di misericordia: diventare una casa aperta e itinerante, in cammino verso le periferie geografiche e esistenziali, protesa verso chi ha bisogno di aiuto, di riconoscimento, di dignità. Essere Chiesa che non si limita a predicare il Vangelo, ma che lo incarna nella vita di ogni giorno.
Francesco è un papa rivoluzionario soprattutto nel suo recupero, nelle parole e negli atti, del messaggio più autentico del cristianesimo: moralità, umiltà, povertà nella Chiesa. Questo significa che la Chiesa ha perso la sua vocazione originaria? E quanto è difficile questa rivoluzione in una Chiesa macchiata da scandali di varia natura?
Più che di rivoluzione, parlerei di “conversione”, di ritorno all’essenzialità e all’intransigenza etica del Vangelo. Il Vangelo non consente adesioni di comodo, fedeltà al Vangelo è rinnovare ogni giorno una scelta così radicale da assorbire tutta la nostra vita, altrimenti la “vocazione originaria” diventa una voce sempre più flebile, un esteriore adeguarsi, una forma priva di contenuto. Francesco c’invita a non essere “cristiani da salotto”. La fede è un cammino arduo anche perché si dirama in due direzioni: nell’interiorità e nel mondo. Purificare la Chiesa vuol dire anche sforzarsi di saldare il Cielo e la Terra, la dimensione spirituale con l’impegno sociale ed è una responsabilità che chiama in causa ciascuno di noi. Il Papa non può essere lasciato solo nel condurre questa difficile opera di pulizia, questa ricerca di verità. E il primo modo per sostenerlo è vivere il Vangelo senza concessioni, diventare cristiani irrequieti, alimentare il bene comune e denunciare l’abuso di potere e le ingiustizie, guardare il Cielo senza dimenticarsi delle responsabilità della Terra.
Uno dei richiami principali di Francesco è legato alla lotta alla corruzione. Da presidente di Libera quanto è difficile il cammino contro questa piaga? E quanto è importante un impegno comune – politica sana, istituzioni, cittadini responsabili e Chiesa – per sconfiggerla?
Il cardinale Martini, prima di Tangentopoli, definì la corruzione una «peste», e lo stesso Francesco, ancora arcivescovo di Buenos Aires, scrisse sulla corruzione un testo di grande profondità, usando parole come “puzza” e “putrefazione”. Questo per dire che, prima di essere un reato, la corruzione è un costume, un male tanto diffuso anche perché non riconosciuto in tutta la sua gravità. Alla base c’è l’idea che si tratti di una variabile dell’economia di mercato, un “diverso” modo di fare incontrare la domanda e l’offerta, e non un grave furto di bene comune. Per questo per sconfiggerla non bastano le leggi, che pure occorrono e non devono lasciare margini al compromesso. Serve un profondo cambiamento culturale, un risveglio delle coscienze. Il che significa investimenti educativi, un’istruzione che sappia non solo trasmettere saperi ma allenare alla vita e alle sue responsabilità, e, più in generale, il coraggio di cambiare un sistema dove la politica, salvo eccezioni, non è più servizio per il bene comune e l’economia si è in gran parte ridotta a gioco finanziario. La corruzione sarebbe meno diffusa se il possesso e l’accumulo di denaro non fossero per troppi una ragione di vita, il fine ultimo delle loro azioni. Ma per liberarci dell’idolatria del denaro – che genera corruzione, abusi, disoccupazione, povertà, guerre – la prima misura è ridistribuirlo, impedire quelle disuguaglianze che umiliano milioni di persone, costruire giustizia sociale e dunque la garanzia per ognuno di vivere con dignità, nella netta distinzione tra iniziativa privata, che è giusto che ci sia, se regolata da leggi a tutela di tutti, e beni comuni che non possono mai diventare oggetto di mercato e di profitto. Ma è un obbiettivo che necessita, come dicevi, di un contributo trasversale – istituzioni e associazioni, politica e economia, chiesa e mondo laico. La corruzione si combatte costruendo il bene comune, il quale, proprio perché comune, richiede un impegno collettivo.
Il Giubileo parte in un clima difficile dopo i recenti fatti di Parigi. C’è chi invoca la guerra contro il terrorismo come risposta. “Occhio per occhio dente per dente” è la soluzione? Non si corre il rischio che una politica di chiusura nei confronti dell’altro possa essere controproducente e fare il gioco degli stessi terroristi?
La guerra non solo è eticamente inaccettabile, ma praticamente inefficace. Le recenti pagine dell’Iraq, dell’Afghanistan, della Libia, sono lì a dimostrarlo coi loro esiti fallimentari. Senza contare che spesso si è fatta guerra a regimi o realtà terroristiche che le potenze occidentali, con una politica dissennata, hanno contribuito a creare e consolidare! L’azione di forza è sempre una scorciatoia che aggrava il problema, a maggior ragione con un terrorismo che, al di là della mascheratura religiosa, trova radici anche nel nostro modo di vivere. Non bisogna trascurare il fatto che parte degli autori di questi orribili massacri sono giovani nati e vissuti in Occidente. Cosa non funziona nelle nostre società? È sufficiente, quando accadono fatti come quelli di Parigi, richiamarci ai nostri valori, o occorre riflettere come, dietro a parole come libertà e tolleranza, c’è un sistema che offre solo a pochi diritti e concrete opportunità di vita, ragion per cui un giovane cerca nell’identità “urlata” dei fondamentalismi l’alternativa a un’esistenza anonima? Le mie sono solo domande che pongo con molta umiltà, non certo per giustificare ma per cercare di capire, altrimenti il rischio è fermarsi ai proclami, alle parole dettate dall’emozione e lasciare le cose come sono fino al successivo attentato o massacro. In questo frangente così difficile e per molti versi tragico, dobbiamo avere il coraggio di cercare la verità e di rischiare la pace. C’è chi considera il pacifismo un’utopia ingenua, un sogno da “anime belle”. Il pacifismo è invece una fede molto concreta nella dignità della politica come strumento di giustizia sociale e dunque di pace. La guerra non è «la continuazione della politica con altri mezzi», come recita il detto. È il fallimento della politica. E una politica che sceglie la guerra è una politica impotente, una politica che tradisce la sua nobiltà e la sua dignità.
C’è chi pensa che con la fine del Giubileo Papa Francesco possa lasciare anche in relazione ai contrasti all’interno della sua stessa Chiesa. E’ una possibilità reale? E se succedesse si correrebbe il rischio di una “restaurazione”?
L’opera del Papa è tanto più forte perché resa credibile dall’esempio personale, dalla povertà, sobrietà e semplicità a cui ha improntato il suo pontificato, come dal coraggio e dalla determinazione di un impegno che ha nel Padreterno il suo primo “sponsor”. Come tutte le persone davvero libere, disinteressate al potere e ai beni materiali, il Papa non si lascia spaventare dalle difficoltà, per quanto grandi. Ciò detto, rimane il rischio della delega. Francesco è senz’altro un dono, ma è anche una persona partecipe dell’umanità di tutti, delle nostre speranze, fatiche, tormenti. È questa umanità a rendercelo così vicino. Ma perché la vicinanza non si riduca a un consenso di facciata, a un’approvazione soltanto emotiva, è necessario che ci diamo tutti più da fare – fuori e dentro la Chiesa, credenti e non credenti – per costruire un mondo dove la dignità e la libertà delle persone diventino le stelle polari di ogni nostra azione, cammino, progetto.
Fonte: intervista di Stefano Corradino pubblicata sul Radiocorriere Tv