Dopo il procuratore di Napoli Giovanni Colangelo e il sostituto della Direzione Nazionale Antimafia Cesare Sirignano, la camorra ha minacciato di morte anche il pm antimafia partenopeo Alessandro D’Alessio. Frasi durissime quelle pronunciate (e intercettate) in un carcere di massima sicurezza del Piemonte nelle quali gli interlocutori maledicono il giudice. Un vero e proprio clima di terrore quello che continuano a respirare i pm campani. Ai microfoni di Rainews24 il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Piercamillo Davigo, preferisce non commentare il fatto in sé, in attesa delle indagini, ma si limita a ricordare un dato tragico ed inequivocabile: “L’Italia è l’unico paese d’Europa in cui ci sono 27 magistrati uccisi nell’esercizio o a causa delle loro funzioni. Basta riflettere su questo dato per capire che è un problema serio…” Le nuove minacce sono state scoperte attraverso intercettazioni ambientali. Sull’uso di questo strumento investigativo indispensabile Davigo è chiarissimo e risponde così indirettamente a coloro che affermano che in Italia di intercettazioni se ne fanno troppe. “E’ sufficiente vedere cosa accade negli altri Paesi” spiega Davigo. “In Italia le intercettazioni sono tutte giudiziarie perché la Costituzione consente solo all’autorità giudiziaria di autorizzarle. All’estero lo fa l’esecutivo. Basti pensare che cosa sta facendo la National Security Agency che ha intercettato capi di governo e ministri in tutta Europa. Evidentemente non è l’Italia che ne fa troppe”.
Al presidente Anm abbiamo chiesto poi, a poche settimane dalle elezioni amministrative in città, come Roma, dove la corruzione divampa, se le leggi per contrastarla sono adeguate e quali misure sono necessarie. “Le leggi sono certamente un po’- ma non molto – più adeguate rispetto a qualche anno fa” risponde Davigo. “Ma il problema è che non bastano, e si richiedono misure diverse. Tra l’altro, una linea contraria a quella che è stata seguita fin qui dal legislatore che ha moltiplicato le fattispecie. Bisogna cercare il più possibile di semplificarle e ricondurle all’unità. Altrimenti il più delle volte i processi si fanno non per stabilire se il soggetto privato ha dato del denaro a un funzionario pubblico ma per vedere in quale casella va collocato quel comportamento”.