“Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io tu e le rose” in finale… Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi“. E’ il 1967. Luigi Tenco si rinchiude nella sua camera in una dependance dell’Hotel Savoy di Sanremo e, prima di togliersi la vita, lascia questo biglietto dopo aver appreso della sua esclusione dalla finale con il brano (splendido) “Ciao amore ciao”.
Forse qualcuno, nella giuria della 60esima edizione della massima kermesse canora, si è ricordato delle sue parole quando ha scelto di non mandare in finale (a meno di un sussulto popolare neomonarchico dell’ultima ora) l’ imbarazzante brano scritto ed eseguito dal Principe e il Pupo, che non è il titolo di una nuova fiaba Disney ma la nuova inquietante accoppiata sanremese. “Tu non potevi ritornare pur non avendo fatto niente…” si strugge Enzo Ghinazzi rivolgendosi ad Emanuele Filiberto, in un crescendo palpitante di ovvietà (“stasera sono qui, per dire al mondo e a Dio, Italia amore mio”). Almeno l’“Italia” di Mino Reitano era divertente e lui aveva una forte dose di autoironia. Il Principe e il Pupo invece sembrano crederci in quello che dicono e cantano (peraltro tra lampanti stonature).
Anche quest’anno, rispettando a pieno la tradizione, la parola “amore” è quella più ricorrente nei testi in concorso, totalizzando 3500 ripetizioni, seguita da “cuore” (1.500). Per carità, dal festival di Mazzi (senza fiori) non ci si poteva aspettare granchè di diverso. Sarebbe bastato allora evitare qualche palese ipocrisia. Come quella di espellere da Sanremo un cantante come Morgan perché ha confessato di aver fatto uso di droga mentre si consente a condannati in primo e secondo grado di scorazzare indisturbati da una trasmissione all’altra. O quella di invitare un artista come Paolo Rossi, per poi dargli il benservito con un sms dopo aver valutato la presunta pericolosità del suo monologo…
Il festival di Sanremo, come scrisse anni fa il Corriere non è una rassegna musicale, bensì un galà, “una sorta di pratica divinatoria coatta per leggere la nostra società”. Uno specchio fedele dell’Italia di oggi. Del suo imbarbarimento, della crisi intellettuale, artistica e morale. Della sua mediocrità. Il Paese della meretriciocrazia in cui si tagliano i fondi alla cultura e all’informazione. Alle idee… In questo contesto sociale poco importa il contenuto di un testo musicale: conta solo lo share, le copie vendute dei dischi e le copertine patinate. “Certe volte mi sentivo inorgoglito, altre volte deluso. Ma sempre in ogni caso un po’ vergognoso a vedermi quasi costretto a sfogliare le riviste specializzate, per scrutare con un occhio quasi da lumaca, fuori dalle orbite, quale posizione avesse ottenuto in classifica il mio ultimo, cosiddetto, prodotto discografico. Perché questo voleva dire che il disco in quanto funzione oggettiva di consumo, aveva assunto un’importanza superiore a quella delle canzoni per le quali viveva, e nelle quali sinceramente mi sentivo di avere vissuto”. Lo scriveva Fabrizio De Andrè che domani, 18 febbraio avrebbe compiuto 70 anni. Tutt’altra sensibilità, tutt’altra passione umana e civile, tutt’altra musica.
(di Stefano Corradino – www.articolo21.org)