Lo studente che decide di iscriversi all’Università, prima di compiere la sua scelta ci riflette, si informa, magari sfoglia un manuale o un’enciclopedia per conoscere la materia che lo guiderà nel quinquennio che si appresta ad iniziare. Lo avrà fatto anche Silvio Berlusconi al momento di scegliere, presso l’Università Statale la facoltà di Giurisprudenza. Scorrendo le pagine di un qualsiasi dizionario avrà appreso, che per “giurisprudenza” si intende “la scienza del diritto”, nonchè “i criteri seguiti dai giudici nell’applicazione delle norme”, e “l’insieme delle sentenze emesse dai giudici”. Definizione che avrà imparato talmente bene da meritarsi nel 1961, esattamente 50 anni fa la laurea con il massimo dei voti.
A mezzo secolo di distanza ecco come si è evoluto il pensiero giuridico dello studente modello: “I giudici sono persone mentalmente disturbate”, “una metastasi della democrazia”, “il cancro della giustizia”. Ieri l’ultimo affondo: “I giudici non ce la faranno a mettere a segno il loro golpe. Il popolo è il mio giudice ultimo”.
I membri della Commissione esaminatrice che nel 1961 hanno assegnato 110 e lode al giurimpudente presidente si staranno rivoltando nella tomba. I tanti cittadini che invece ancora non giacciono nei sepolcri, e non riposeranno mai negli sfarzosi mausolei di Arcore, oggi dovrebbero rivoltarsi insonni nelle lenzuola dopo una giornata trascorsa ad ascoltare le frasi eversive del premier e le giustificazioni dei suoi agit-prop: “E’ stato votato dalla maggioranza degli italiani”. “Ha il consenso popolare”. “I sondaggi lo danno sempre vincente”.
Una singolare concezione della democrazia e del diritto: chi ha i voti può infischiarsene delle regole, farsi leggi su misura, imbavagliare la stampa, molestare le trasmissioni tv e spedire videocassette a reti unificate (ma rifiutandosi di partecipare ai confronti in diretta).
Abramo Lincoln, come ho ricordato alcuni giorni fa sul quotidiano Blitz, a chi gli chiedeva cosa fosse la democrazia rispondeva che è “il governo del popolo, dal popolo, per il popolo”. La democrazia per Berlusconi è il governo del Presidente, dal Presidente, per il Presidente.
Eppure, il 1 gennaio 1948 sembrava cosa fatta. Dopo i sei anni della seconda guerra mondiale e i venti anni della dittatura, dalla Resistenza e dallo sforzo di tutta la Società italiana del dopoguerra nasceva un Codice condiviso dei diritti e dei doveri che aveva, come affermava Calamandrei “una funzione rinnovatrice, progressiva”, ispirata alla “trasformazione della società”, e ad una concezione antiautoritaria dello Stato con una chiara diffidenza verso un potere esecutivo forte. Quanto la Carta fu promulgata gli italiani appresero che “la sovranità è del popolo”, e che tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge. Non c’era alcuna postilla che indicasse che un cittadino è “più uguale degli altri”, come ebbe a definirsi il presidente del Consiglio durante un’udienza del processo Sme.
A 63 anni di distanza dovremmo porci il problema di come estendere i diritti sanciti, di quale combustibile mettere dentro la Costituzione, per dirla ancora con Calamandrei, “che non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé ma che ha bisogno de “l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”. Oggi invece ci troviamo a dover difendere in Parlamento, nelle aule dei tribunali e nelle piazze principi e valori che dovremmo considerare acquisiti. Siamo nel 2011 ma sembriamo ripiombati nel passato. Forse neanche al ’48 ma indietro di due secoli rispetto all’”eguaglianza formale” dello Statuto albertino (1848) e allo Stato di diritto dell’Ottocento.
In queste settimane le piazze d’Italia si riempiranno di cittadini che sentono calpestata la propria dignità. Di donne che non accettano di essere rappresentate come oggetto di scambio sessuale. Di donne e di uomini che vorrebbero vivere in un paese normale e non esposto al pubblico ludribio internazionale per le gesta di un tirannello malato di narcisismo e superomismo che, invece di farsi curare, cerca di infettare la collettività.
Articolo21 sta lavorando con impegno per la manifestazione delle donne del 13 febbraio. Stiamo raccogliendo adesioni, riflessioni delle tante donne di diverso orientamento politico e culturale che si sentono svilite ed offese. E saremo in tanti domenica. Ma un’ora dopo cominceremo a lavorare con un grande obiettivo. Insieme alle tante associazioni che con noi stanno riflettendo su come trasformare l’indignazione in protesta e proposta vogliamo chiamare a raccolta partiti e associazioni, donne e uomini di diverso credo politico, e lanceremo l’appello alle tv e ai giornali per promuovere una grande manifestazione nazionale unitaria entro i primi quindici giorni di marzo. Sventolando il Tricolore, cantando l’inno d’Italia e recitando i 139 articoli della Carta.
Perchè la Costituzione è la nostra unica medicina contro un potere malato, l’unico antidoto contro il rischio di inesorabile imbarbarimento e rovina. “Se non ora quando”, come recita il bello slogan che domenica sventoleremo insieme.
(di Stefano Corradino)