“Questo 2007 è terminato grazie all’Italia, con la straordinaria moratoria sulla pena di morte. Allarghiamo il tema: nei nostri luoghi di lavoro si muore tutti i giorni dell’anno come dei condannati alla pena capitale o vittime di una guerra civile dove il “dio denaro” batte il tempo delle “non” regole. Perché? E la tv? Se ne occupa solo quando si è “costretti” da gravi tragedie, come quella della ThyssenKrupp, ma con il rischio di trasformarlo in un altro “caso” da talk show: Cogne, Garlasco, Perugia e ora Torino…” Daniele Segre, regista piemontese di 55, anni autore di numerose opere premiate in festival nazionali ed internazionali è tornato sul set con un nuovo film denuncia “Morire di lavoro”, dedicato alla tragedia della ThyssenKrupp. Ha incontrato per un anno i lavoratori dell’edilizia di Lazio, Campania, Lombardia e Piemonte e i parenti delle vittime ed ora porta sul grande schermo storie quotidiane di illegalità sul lavoro.
Per quale ragione ha scelto di fare un film sulle morti nel mondo del lavoro?
Perché si deve fare e basta. Si deve intervenire in tutti i modi, con gli strumenti più adatti ed efficaci per poter riuscire a interrompere il bollettino di guerra che ci giunge dai luoghi di lavoro e che ogni giorno ci travolge, ci stravolge e ci indigna. Ho cercato più volte negli anni di dare il mio contributo di regista: dai lavoratori dell’Enichem di Crotone (’93), ai minatori della Carbosulcis di Nuraxi Figus (’94) agli operai di Villacidro (2000).
La sicurezza del lavoro come nuova frontiera di “impegno civile”?
No, come scelta di espressione, peraltro spesso difficile e impegnativa, perché certi argomenti non sono così in linea con i palinsesti del servizio televisivo pubblico e anche con quello distributivo cinematografico.
La tragedia della ThyssenKrupp ha “costretto” la tv od occuparsene.
Costringere, appunto. Ma con il rischio di affrontare temi come questi come questi con il cliché dei talk show: da Cogne a Garlasco a Perugia. Ora Torino… Un luna park degli orrori con i suoi eroi, positivi o negativi, uno spettacolo realizzato spesso per nutrire la nostra curiosità morbosa. Ma questa non è cultura, è sottocultura, anzi è anticultura, pericolosa e distruttiva. In un paese “normale”, una tv “normale” dovrebbe prendersi cura dei propri cittadini, nutrirli con la cultura e la conoscenza e metterli in condizione di vivere il più possibile consapevoli dell’importanza della vita e dei valori primari che connotano una civile democrazia. Alberto Manzi insegnava in tv agli italiani a leggere e a scrivere nel format “Non è mai troppo tardi”. Sembra passato un secolo. Oggi dov’è il ruolo di servizio pubblico?
“Morire di lavoro”. Chi sono protagonisti di questo suo nuovo film di denuncia?
Sono edili e familiari di lavoratori morti in Italia di cui ho parlato scegliendo una forma espressiva semplice: i protagonisti in primo piano che guardano l’obbiettivo e raccontano. Il loro sguardo è diretto agli occhi degli spettatori. La tragedia dei lavoratori deceduti è invece raccontata attraverso l’interpretazione di tre attori che raccontano di come sono morti lavorando in un cantiere, da Napoli a Milano, da Roma a Torino.
Chi l’ha aiutato in questa impresa e chi no.
Ho realizzato e prodotto questo film con la mia società di produzione “I Cammelli” dopo aver bussato a molte porte del sistema televisivo e cinematografico pubblico italiano. Ho ricevuto sonori “no”. L’unico sostegno mi è giunto dal Piemonte Doc Fund e dal Sindacato Costruzioni CGIL.
Lei ha viaggiato un anno in quattro regioni d’Italia da nord a sud. Cosa accomuna queste realtà diverse?
Non conoscevo il mondo dell’edilizia se non in modo superficiale: grazie al Sindacato delle Costruzioni della CGIL ho potuto entrarci e approfondirlo. Le differenze tra il sud e il nord del paese sono molte, ma c’è un dato che accomuna i cantieri: la mancanza della legalità e del rispetto delle norme di sicurezza e dei più elementari diritti dei lavoratori. Dal nord a sud la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori è calpestata e offesa ogni giorno, la tristezza e la demoralizzazione per questa condizione è nell’espressione degli occhi, occhi velati di frustrazione e impotenza.
La tragedia delle morti bianche ha riportato il tema del lavoro al centro della discussione collettiva. Sembrava che gli operai non esistessero più…
Invece ci sono. E nei cantieri non hanno il diritto di parola e quotidianamente vivono l’angoscia di poter perdere il posto e tutto quello che psicologicamente comporta questa prospettiva.
Qui interviene il cinema, come uno degli strumenti per destare le coscienze?
Io penso ad un cinema in grado di restituire il diritto di parola negato da molto tempo. Oramai il mondo del lavoro non “esiste” più se non quando si muore e si fa notizia. Un cinema utile per “la ricostruzione dell’identità ”, non solo del mondo del lavoro… Per scatenare una reazione e per non rassegnarci all’idea di una umanità sconfitta.
Qualche segnale positivo c’è. La moratoria sulla pena di morte.
Un grande risultato, conseguito grazie all’Italia. Partiamo da qui per questo grande impegno: nei nostri luoghi di lavoro si muore tutti i giorni come dei condannati alla pena capitale o vittime di una guerra civile dove il “dio denaro” batte il tempo delle “non” regole. Lanciamo una campagna per una “moratoria sulle morti bianche”. E speriamo che cinema e tv la raccolgano.
(Stefano Corradino – www.articolo21.org)