Torino. Un giovane industriale faccia a faccia con la crisi. La sua fabbrica è una piccola comunità. Praticamente è nato lì seguendo le orme del padre. Lui conosce tutti. E teme per la sorte dei suoi operai. Poi la rivincita, dopo un’estenuante trattativa con la più solida Germania. “Abbiamo fottuto i tedeschi” urla il protagonista con un grido liberatorio. Ma intanto il dramma del lavoro si è spostato nella sfera privata tra incomprensioni, silenzi e gelosie… E’ il tema de “l’Industriale“, il film di Giuliano Montaldo attualmente nelle sale. Un’opera molto attuale che offre numerosi spunti di riflessione. Ne parliamo con il regista. 81 anni, ma solo per l’anagrafe.
Quando ha cominciato a girare il suo film immaginava di essere così profetico e che la condizione reale dell’industria e dell’economia italiana potesse essere ancor più critica di quella che Lei ha raccontato nella finzione cinematografica?
Noi avevamo cominciato a pensare al film fin dal 2010. La crisi si avvertiva già nel Paese. Percorrendo il mitico nord est vedevamo piazzali vuoti, fabbriche abbandonate, capannoni occupati. C’era la sensazione che stavamo vivendo un momento difficile. Un maremoto, ma non lo tsunami che si è poi palesato.
Perché la scelta di raccontare la realtà di una piccola azienda?
Perché è il tessuto principale dell’economia italiana. E tanti aspetti di questa vicenda romanzata sono comuni, nella realtà, a tante realtà di fabbrica: l’ingegner Ranieri (un ottimo Pierfrancesco Favino, ndr) è il figlio di un operaio. Grazie al contributo degli altri operai il padre è diventato leader della fabbrica. Un rapporto straordinario quello del padre con i compagni di lavoro ma anche del figlio, nato praticamente nella fabbrica. Giocava a pallone nel cortile, li conosceva tutti. Quando lui spiega loro come stanno le cose e preannuncia il rischio di chiusura gli operai partecipano del dramma collettivo.
Ma non si incazzano più di tanto. Sono molto preoccupati dal destino loro e delle loro famiglie ma sembrano rassegnati all’idea che la crisi sia ineluttabile…
E’ così. Tra l’altro il mio collaboratore-collega ha scelto uno per uno gli operai del film e la maggior parte di loro sono operai veri. Quelle parole gli sono arrivate nel profondo e non hanno dovuto fare alcuno sforzo di elaborazione. Quando ho parlato con loro del film avevano già gli occhi del dolore.
La finzione che si sovrappone realtà
A Genova alcuni giorni fa c’è stata la presentazione del film. Tre operai della Fincantieri hanno chiesto di intervenire. Mentre uno di loro parlava della privazione della dignità il pubblico aveva le lacrime agli occhi… Quando la finzione diventa realtà ti tocca il cuore davvero.
L’industriale dilaniato dal terrore che la sua azienda ereditata dal padre possa chiudere e lasciare senza lavoro i suoi operai. Una visione romantica del “padrone”…
Quando l’azienda è di piccole dimensioni, come quella che raccontiamo nel film, l’industriale conosce la sua realtà. Sa del mutuo, contratto dal suo operaio, sa che la moglie dell’altro operaio ha perso il lavoro, sa che un altro ha due figli a scuola e che un altro ancora ha la figlia malata… Conosce le problematiche di ognuno di loro. Quando è così si stabilisce un legame, soprattutto se il “padrone” è il figlio di un operaio che gli ha trasmesso il valore del lavoro… L'”industrialone” tipico che vede passare le tute blu nei corridoi non conosce nessuno di loro.
Uno a caso, Marchionne?
Esempio calzante, lui non li conosce. Se li conoscesse piangerebbe tutto il giorno…
Di crisi Lei ne ha viste tante…
Sì, molte, come può immaginare considerata la mia età… E ogni volta queste crisi ci venivano descritte per quello che erano. Ma per quanto riguarda quella attuale il governo Berlusconi non ci ha detto la verità. Ci ha spiegato che era colpa della Grecia, della Spagna, del Portogallo… Che era responsabilità della Merkel e di Sarkozy. Poi leggo che sono stati bruciati oltre 300 milioni di euro… Il cerino è qui e brucia nelle dita.
E chi è il piromane?
Io non lo so, lei lo sa? Anzi forse lo sappiamo. Ma allora dobbiamo domandarci: dove sono i pompieri? Ignoro quale sia la soluzione migliore ma penso che dovremmo avere lo stesso approccio di coloro che nel dopoguerra si sono rimboccati le maniche, tutti, per ricostruire un paese in ginocchio.
Come giudica le prime mosse del governo Monti per affrontare la crisi? Pensa che stia facendo abbastanza per ridurre il livello di diseguaglianza o così facendo questa polarizzazione tra straricchi e poveri non sarà sostanzialmente intaccata?
Mi sarebbe piaciuto che il signor Monti avesse detto: “io vi sto prendendo i soldi e lo so che è un dolore levarveli – e infatti la sua ministra piangeva – ma appena becco i soldi di quei figli di mignotta che li hanno portati all’estero o li hanno nascosti ve li ridò. Ma non l’ha detto…
Girando il film Lei è stato a contatto con la società torinese nelle sue diverse forme. Come hanno vissuto questo film? Come percepiscono la crisi?
La collaborazione dei torinesi durante le riprese è stata commovente. Ho voluto sgombrare molte strade dalle macchine perché volevo dare maggiormente la sensazione della desolazione e della crisi. Ora, non è che tu quando qualcuno la sera posteggia la macchina puoi chiedergli così facilmente di toglierla. Ebbene, quando gli abbiamo spiegato il progetto del film il sostegno è stato pazzesco perché hanno capito che il senso del film non era il giallo che aveva in mente il regista ma il giallo che sta riscrivendo la storia.
La crisi rende i cittadini più egoisti o più solidali?
Li rende più impauriti e disorientati. Dobbiamo sperare che diventino più solidali. Purtroppo ognuno pensa a sé stesso.
Abbiamo bisogno di recuperare valori che si sono persi?
Non saprei, so però che in questi anni abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità: io ho scritto per 25 anni con una Olivetti M40; oggi, ogni giorno, c’è una macchina nuova per scrivere o per pensare… Mio padre ha avuto in casa un telefono a muro che è durato per oltre 50 anni… Oggi quando uno pensa di avere il cellulare di ultima generazione un minuto dopo compare qualcuno con un telefonino ancora più innovativo. Tra l’altro tutta roba che non produciamo neanche noi…
Alcuni critici le rimproverano di aver focalizzato troppo nel film il dramma privato a scapito del tema sociale
Quando abbiamo scritto la sceneggiatura la “temperatura” della crisi non era a questi livelli. Inoltre secondo la mia opinione – tesi avvalorata parlando con dei giovani imprenditori che si sono trovati in situazioni simili – quando la crisi arriva tra le pareti di casa il dramma è esplosivo. I silenzi, le incomprensioni e anche la mancanza di poter mantenere un certo tenore di vita acquisito mettono in crisi anche rapporti di coppia apparentemente solidi…
Figuriamoci cosa scatta quando il marito sospetta che la moglie – la protagonista femminile Carolina Crescentini anche lei molto brava – incontra clandestinamente un “extracomunitario”…
Quello diventa il suo cruccio più devastante. Se lei avesse avuto incontri clandestini con l’avvocato li avrebbe sbattuti al muro entrambi. In questo caso lui si danna l’anima nel domandarsi per quale ragione lei, ricca e in carriera possa scegliere di avere un rapporto con un povero garagista e decida di incontrarlo nella zona travagliata e piena tossicodipendenti dove il giovane rumeno vive…
Un aspetto tecnico: la scelta del “non-colore”
La prima notte che ho scritto ai collaboratori del film ho detto loro che il film lo vedevo in bianco e nero ma sarebbe stato un azzardo. Poi il direttore della fotografia (Arnaldo Catinari, ndr) mi ha proposto un esperimento, una nuova tecnica con tonalità fredde e opache. Il produttore ha subito colto questa idea. Ma per me il bianco e nero sono le tonalità che meglio esprimono la crisi. Per “colorare” questo momento di decadenza abbiamo molta strada da fare…
http://www.articolo21.org/4623/notizia/abbiamo-fottuto-i-tedeschi.html