“Quando non sai cos’è allora è jazz”. Così, nel film “La leggenda del pianista sull’oceano” di Tornatore un appassionato di musica, parlando con il trombettista Max, descriveva il jazz.
Il jazz è musica non certo orecchiabile, non concede nulla alla popolarità. Le sue melodie sono bizzarre, le frasi zigzaganti e dinamiche con intervalli inconsueti. Non canticchi un pezzo jazz come un qualsiasi brano commerciale o d’intrattenimento. Ciononostante, pur non scalando le vette discografiche è un genere che si espande, in ogni parte del mondo e i suoi seguaci, una volta apprezzato e approfondito non lo abbandonano. Forse la sua forza è proprio nel carattere non orecchiabile, disarmonico e dissonante ad un primo ascolto. E invece, quando cominci ad ascoltarlo con attenzione e dedizione ti entra nelle ossa, lo abbracci e non lo lasci più.
In Italia abbiamo straordinari musicisti jazz che hanno contribuito a diffondere il genere e sono saliti alla ribalta delle scene internazionali, alla pari dei loro colleghi d’oltreoceano. Ad alcuni di loro va riconosciuto un ruolo non solo divulgativo ma “pedagogico” nell’aver avvicinato al gusto del jazz anche i palati meno raffinati. Tra questi c’è senz’altro Danilo Rea, pianista che si è fatto strada nell’ambiente jazzistico suonando con alcuni tra i più grandi solisti statunitensi, come Chet Baker, Lee Konitz, John Scofield, Joe Lovano. Tuttavia, la sua predilezione per il jazz non gli ha impedito di suonare nell’ambito del pop, come pianista di fiducia di artisti come Mina, Claudio Baglioni, Pino Daniele… Negli anni la sua è diventata una sorta di “missione”, quella di sperimentare virtuosi anelli di congiunzione tra pop e jazz…
Cominciamo con un bilancio. Qual è oggi lo stato di salute jazz? E’ finalmente uscito dalla nicchia in cui ingiustamente è stato relegato nei decenni scorsi?
Penso proprio di sì. Certo, il jazz negli anni è cambiato molto. Ne è passato di tempo dalle massime espressioni del jazz: Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, Billie Holiday… Talenti meravigliosi. Poi il jazz è entrato in un territorio più “ostico” per l’ascolto. Gli artisti diventano compositori anziché interpretare la musica dei loro tempi. Adesso, in qualche modo, sembra si stia tornando alle origini e il jazz ha trovato una nuova via di comunicazione con il suo pubblico.
Anche il jazz italiano è uscito dal guscio. Nei templi americani del jazz, fino a qualche anno fa era praticamente impossibile pensare di sentir suonare i nostri musicisti…
Penso si sia affrancato ad un buon livello. Abbiamo iniziato alla fine degli anni ‘70 a lavorare con i musicisti americani che venivano in Italia, imparando da loro a suonare. Poi abbiamo cominciato a camminare con le nostre gambe creando un modo di suonare tutto nostro che prendeva ispirazione dalle nostre radici culturali e musicali. E questa evoluzione ci è stata riconosciuta in tutto il mondo.
Nel 1997 dai vita, con il contrabbassista Enzo Pietropaoli e il batterista Fabrizio Sferra ai “Doctor3”. Una formazione musicale che reinterpretava in chiave jazz gli standard della musica pop italiana ed internazionale. Si può dire che sei stato un capostipite di questo genere.
Per la verità questo lavoro è cominciato molto prima. Già negli anni 75-80, con il “Trio di Roma”, reinterpretavamo brani celebri come quelli di Bob Dylan. Non vorrei peccare di presunzione ma penso di essere stato, insieme ad altri, il primo a fare questo tipo di lavoro sui brani dei nostri tempi. In fondo però non ho fatto un grande lavoro: ho ricalcato i passi già tracciati dai grandi jazzisti che riadattavano in chiave jazz gli standard dei grandi compositori.
Oggi siamo in presenza di una pesante crisi discografica. Il jazz ne risente?
Non più di tanto. E sicuramente non è paragonabile alla crisi della musica pop, che tra l’altro se la merita anche un po’ visto che le cose belle sono veramente poche… In ogni caso le vendite nel jazz sono sempre state limitate. Tuttavia abbiamo assistito negli ultimi anni anche ad importanti inversioni di tendenza. Come quando giornali come Repubblica o l’Espresso hanno pubblicato gli appuntamenti della Casa del jazz di Roma che ha rappresentato un veicolo di vendita e di diffusione pazzesco ed impensabile per un jazzista, avvicinando un pubblico sempre maggiore.
Come ha influito internet nella divulgazione?
La rete ha un ruolo importante. Talvolta i dischi jazz non si trovano nei negozi perché la distribuzione è carente. Quindi, finite le scorte, internet può diventare uno strumento estremamente utile. Poi ci sono strumenti come youtube che hanno rivoluzionato la diffusione, nel bene e nel male. Certo, spesso ci troviamo ad essere “saccheggiati” e certe performance preferiremmo non vederle. Ma tutto sommato è uno strumento utilissimo. Pochi giorni fa ad esempio dovevo fare un concerto all’Auditorium di Roma con Paolo Fresu e mi sono detto: “vediamo un po’ da youtube gli ultimi concerti di Paolo”. Così ho scoperto che lui reinterpretava due bei brani di Fossati e di Mia Martini e ho pensato: “perchè non li rifacciamo insieme?”
In quest’ultimo anno stai portando in giro per l’Italia, e non solo, un progetto legato a Fabrizio De Andrè. Perché la scelta del cantautore genovese? Cosa lo rende così “malleabile” al jazz?
De Andrè è stato sempre molto attento alla tradizione popolare nella stesura metrica. Un cantautore molto riconoscibile anche dal punto di vista melodico. All’estero sono tantissimi ad apprezzarlo tant’è vero che il disco su De Andrè mi è stato commissionato da una etichetta tedesca. Anche in Francia è stato paragonato ai loro grandi poeti. Lui arriva alle emozioni anche con la musica, non solo con le parole…
In quali Paesi ti stai esibendo, portando tra l’altro De Andrè?
In Francia, Germania, Usa, Canada. Stiamo girando praticamente tutto l’anno.
C’è un luogo particolarmente suggestivo in cui hai suonato?
Sì, ed è in Italia. A Ravello, una delle cornici più belle mai viste. Con il palco sulla costiera praticamente a strapiombo sul mare. Un luogo di notevole bellezza che consiglio a tutti. C’è un altro luogo per me indimenticabile ed è Garmisch, nel sud della Baviera, quasi al confine con l’Austria dove ho registrato il disco su De Andrè. Nei pressi della città c’è uno splendido castello immerso nella foresta che offre ospitalità ai musicisti. Lì, per una settimana, nel relax di una cornice suggestiva e silenziosa, con le piscine di acqua calda all’aperto ho trovato un ambiente unico e ideale dove rilassarmi, concentrarmi e trovare ispirazione. Dimenticavo ce n’è un altro ancora: il massiccio del Sella, gruppo montuoso delle Dolomiti vicino alle valli di Fassa. Un luogo meraviglioso. Ho visto arrivare il pianoforte in elicottero…
Una conversazione, quella con Danilo Rea, estremamente piacevole che si può trascinare per ore dialogando di musica, cultura e di viaggi. Ma non possiamo abusare del suo tempo. Perché Danilo, mentre lo intervistiamo è nel parco di Villa Ada con il figlio che ogni tanto lo chiama a giocare con lui. La figlia più grande, di 19 anni, è un’appassionata di musica e si è iscritta ad un corso di jazz al conservatorio dove studierà come cantante. Il figlio invece ha soli 4 anni. “A lui la musica piace?” gli chiediamo a conclusione dell’intervista. “Penso proprio di sì. Ascolta musica classica e jazz. Qualche tempo fa un tecnico del suono si è avvicinato e gli ha chiesto: “Bambino, che musica ti piace?” E lui ha risposto senza esitazioni: “A me mi piace Burt Bacharach!”…
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