La poesia – scriveva Garcia Lorca – non cerca seguaci, cerca amanti”. Dissertare di poesia può rischiare di banalizzare la poesia stessa, deformarne il significato, intimo, soggettivo, profondo. Un verso di una canzone, un sonetto, o il tratto di un pennello su una tela vanno sentiti, respirati, vissuti. Trascendono il concetto di proprietà perchè diventano patrimonio di chi legge, ascolta, osserva.
“La strega poeta”, il libro di poesie di Laura Ricci si può leggere in modo diverso. Lasciandoci sempicemente trasportare dal ritmo e dalle evocazioni dei luoghi, delle donne e degli uomini che li abitano. Oppure scavando nell’intimità e nel mistero delle emozioni. Quelle appena sussurrate e quelle che squarciano. La poesia di Laura è intensa e pulsante, catartica. Sognante ma concreta. “Presenza – recita un suo verso – non è semplicemente stare…”
“Davvero siamo certi che Elena fosse la causa di tanti conflitti…” “Per uccidere un marito cercò un amante la bella castellana…” Amore e odio, eros e thanatos si impongono sin dai primi versi del tuo libro. Un eterno dualismo? Due facce della stessa medaglia? O è anche un tuo conflitto interiore?
Nessun conflitto interiore, almeno nessun conflitto straziante, se non quello del tutto costituzionale che è insito nella natura umana e, forse, nell’intera natura, nell’intero universo. Giorno e notte, estate e inverno, la foresta tropicale e il deserto… forza e fragilità, pace e guerra, disperazione ed esaltazione, bellezza e volgarità… come dici tu eros e thanatos… Penso, e credo che questo mio ultimo libro lo declini con varie e diverse note, che tutto nella vita proceda dialetticamente e per opposti, che, come tratteggio in un altro verso, “nulla senza un contrario ha senso”. E l’equilibrio consiste nel non negare il conflitto, nell’assumerlo e nel dargli una direzione di senso e un’umanizzazione; o anche, semplicemente, nel lasciarsi attraversare con umiltà dagli inevitabili contrari, nel resistere aspettando l’eterno ritorno del buono e del bello.
Elena, Angelica, Cleopatra… Cos’hanno in comune queste figure di donne tra mito e realtà? In che modo la loro rilettura e rievocazione ti è servita per la narrazione poetica?
La loro rilettura, come quella di molti altri segni, mi è servita, poeticamente ma anche esistenzialmente, per un rovesciamento di senso al femminile, per guardare e interpretare il mito o la storia con occhi di genere. Di Elena si è sempre raccontata la sconvolgente bellezza, tuttavia la guerra di Troia non si fece per Elena ma per il potere, un dépistage… esattamente come oggi non si va in Medio Oriente per esportare civiltà ma per il potere economico. Di Angelica si versifica il suo eterno sfuggire ai paladini, con ironia e gentilezza, ma anche con la necessità si afferrarla, mentre è proprio in quel ripetuto sottrarsi la sua forza. Di Cleopatra ci è stato mostrato il fascino perverso, quando invece dovremmo ammirare la sua cultura e la sua intelligenza politica, sia pure sconfitte dall’imperialismo romano. Non hanno qualcosa in comune ma, insieme, incarnano tutto quello che renderebbe forte una donna: sicurezza e gradevolezza (Elena), saperi e strategia (Cleopatra), autonomia e autodeterminazione (Angelica).
“Libertà non è l’oasi, è la traccia di sterminati passi nel deserto”. La libertà si conquista con la sofferenza?
Più che di sofferenza parlerei di un non facile cammino di perfezione interiore; mai compiuto, – ecco gli “sterminati passi” – per il semplice motivo che alla perfezione, in quanto umani, si può solo tendere. Ma soprattutto la libertà non si conquista una volta per tutte, è un cammino continuo, stupendo ma impervio, un ripetuto interrogarsi sulla relazione tra sé, l’altro da sé e il mondo. E sul senso stesso di libertà, che non è questione da poco. Per una donna, poi, è ancora più arduo, perché bisogna decostruire non solo le mistificazioni che valgono per tutti, ma anche quelle che secoli di simbolico maschile hanno cucito addosso, non sempre a ragione, al nostro sesso. Insomma, per chiudere ancora in versi, libertà “non è il porto, è la nave che beccheggia nella tempesta”. Vale per il sé, vale per i popoli.
Il diritto di essere gentile, il diritto alla commozione e alla tenerezza di cui parli nella terza parte del tuo libro… E’ un diritto che questa società vuole negarci?
E’, innanzi tutto, un diritto poco incoraggiato dalle società patriarcali e dall’occidente in generale, ancora molto impregnato, checché se ne dica, della cultura dei philosophes, ancora troppo poco propenso all’interezza, salvo essere poi visibilmente malato o schizofrenico. E’, tutt’al più, un diritto riconosciuto alla sfera privata (vedi anche le più stucchevoli pubblicità, dai cioccolatini, al credito per le famiglie, al mulino bianco), ma no davvero a quella pubblica, dove i modelli sono invece duri, rampanti, determinati se non addirittura spietati. Servirebbero cura, gentilezza, relazione, amore, e invece questa nostra società, presa pubblicamente, non riesce spesso a praticare neanche il più elementare rispetto. Sì, ci vuole una certa ostinazione, di questi tempi, a rivendicare cuore e gentilezza. E anche la ragione, a dire il vero, che è comunque l’altra, fondamentale faccia della medaglia, sta perdendo non pochi colpi.
L’ultima parte del tuo libro, oltre ad essere quella che gli dà il nome è anche quella in cui le tue emozioni sono più potenti ed evocative. Citi Orvieto: vicoli, torri e tetti… E così, accennando di Orvieto, la sfiori ma non la tocchi quasi come se ti ci sentissi un pò fuori posto…
No, nessun problema con Orvieto… la sfioro perché io non sono né possessiva, né rapace, né abbarbicata a qualcuno o a qualcosa. Per mia natura, non amo né possedere né essere posseduta. La sfioro perché credo che sia il modo migliore per comprendere e non intaccare il miracolo del mondo e della bellezza. Insomma, la sfioro ma vi affondo. Non mi ci sento fuori posto, così come non mi sono sentita fuori posto in nessuno dei molti luoghi della mia vita. Oltretutto Orvieto è una città che con me è stata ed è molto accogliente e generosa. Sono piuttosto in pace con me stessa, del resto, e questo influenza positivamente il mio rapporto con i luoghi e con chi li abita. Sono convinta, infatti, che il malessere che si prova a volte rispetto a un luogo rifletta spesso un malessere rispetto al rapporto con il proprio sé.
Eloisa, a ragione, si sentiva fuori posto…
Sì, Eloisa, più che sentirsi fuori posto, sentiva Orvieto stretta rispetto ai suoi bisogni, alle sue aspirazioni; la sentiva, rispetto ad alcuni rapporti e ad alcune aspettative, certamente un po’ chiusa e ostile. Ma al tempo stesso la amava quasi visceralmente, altrimenti, con tutte le sue relazioni culturali, avrebbe trovato il modo di lasciarla. Per questo amore, quasi inconfessabile e inconfessato, si è sempre spesa con grande generosità e passione per rendere meno provinciale e più aperta questa nostra città e credo che, anche se a lei i risultati non bastavano mai, in qualche misura ci sia riuscita.
Dedichi a lei questo libro. C’è un’associazione che meritoriamente a lei è intitolata. Ma se “la memoria è un’emozione” perchè ho la sensazione che che in questa città sia così facile dimenticarsi delle sue persone migliori? (Eloisa, Livio, il giovane Francesco…)
La spiegazione potrebbe essere molto semplice: perché questa città, come genericamente la nostra civiltà, dà troppo poco spazio alle emozioni. Per essere meno lapidari, non so se questa città è diversa dalle altre, non so se ci sono città che ricordano di più, forse sono tutte inclini a valutare poco i propri figli migliori: il detto nemo propheta in patria avrà pure le sue ragioni. In ogni caso, le emozioni, e anche il ricordo, sono qualcosa di intermittente e intimo, per quelle modalità illuministiche che prima rammentavamo si tende a nasconderli. Forse non è vero che questa città dimentica… magari è un po’ introversa, sobria e misurata come le sue belle pietre, ma Eloisa, Livio, Francesco e altri che sembrano dimenticati la sfiorano e la muovono molto più di quanto appaia. Credo che, sia pure non troppo gridati, siano nel cuore e nel ricordo di molte persone.
Vorresti una Orvieto più poetica o più stregata?
Orvieto è già abbastanza poetica e stregata. La sento e mi muove, poeticamente, ogni giorno, tanto che penso di dedicarle, prima o poi, un libro di versi tutto per sé. La vorrei, piuttosto, più organizzata ed efficiente, in grado di sfruttare e proporre, di più e meglio, tutto l’incanto che è possibile estrarre dalla sua magica presenza e dalla sua ricchissima storia.
Chi sono oggi le streghe? Sono le donne lavoratrici in competizione con l’uomo, a cui una società di fatto ancora maschilista non riconosce ruoli che dovrebbero spettare loro di diritto?
Personalmente dò un senso positivo alla parola strega, e in un libro di riletture e di rinominazione non potrebbe essere altrimenti. Certamente per la parte maschilista che popola ancora la nostra società le streghe possono essere queste donne in competizione che tu citi, che giustamente reclamano diritti e sembrano minacciare i poteri più biechi e consolidati. Ma per me le streghe i poteri – non il potere – li hanno già conquistati. Sono esseri con qualche antenna in più, detentrici di pozioni ed esorcismi benefici, della capacità di non arretrare di fronte alla decodificazione delle apparenze e dell’imbroglio. Esseri con un qualche potere salvifico. E, per la strega poeta, il potere salvifico è quello della parola.
(Stefano Corradino – la Città)