Sappiamo che è una donna che ha fatto un lungo percorso nell’azienda e questo è un punto a favore laddove, modalità ormai consolidata, non solo in Rai, si tendono ad affidare incarichi manageriali ad esterni senza alcuna esperienza né tantomeno competenza in materia. Dovremo aspettare le prime delibere, i primi atti formali per giudicare.
Di lì a poco ci sarà qualcuno che farà un primo bilancio degli ascolti (auditel) e del gradimento (qualitel), dati fondamentali per la pianificazione degli spazi pubblicitari, risorse di cui anche la televisione di Stato vive (oltre al canone). Ma la logica prevalente del servizio pubblico, inteso non solo come radiotelevisivo, non può essere quella di far quadrare i conti. Parlare di servizio pubblico, dalla scuola alla sanità, dalla pubblica amministrazione all’informazione vuol dire riferirsi ad attività utili per il soddisfacimento dei bisogni eterogenei degli utenti e al conseguimento di fini sociali. Perché allora non cominciare dalla Rai introducendo una sorta di “Utilitel”, un indice di misurazione del grado di “utilità sociale” che hanno alcuni programmi?
Da quando negli anni ‘70 l’avvento delle reti private ha ampliato l’offerta televisiva sono cresciuti a dismisura i programmi d’intrattenimento e si sono diffusi i reality show. Reti pubbliche e private sono diventate rivali ma in una competizione per l’audience, non certo per la qualità e l’utilità del servizio. L’“Utilitel” ci potrebbe far comprendere che è più opportuno spendere per un programma che informi i cittadini sui loro diritti e doveri piuttosto che sulle flatulenze di giovani spiati in una casa o di star un po’ in disgrazia sbarcate in un’isola a vivere alla Robinson Crusoe per riacquistare un po’ di popolarità…
Magari in Rai funziona e scopriamo che questo criterio si può estendere ad altre attività da remunerare secondo criteri di utilità sociale. E allora un’insegnante o un medico potrebbero arrivare a guadagnare più di un calciatore o di una velina…