E’ successo due giorni fa sul lungomare di Porto d’Ascoli. E’ stato il Corriere Adriatico a riportare la notizia e l’Associazione Carta di Roma a segnalarlo tempestivamente con la consueta sensibilità su questi temi. Due giovani venditori di fiori, originari del Bangladesh mentre stavano facendo l’abituale giro per gli chalet della Riviera si sono ritrovati circondati da un gruppo di ragazzi. Prima gli insulti e poi l’aggressione con calci e pugni: “Li hanno picchiati perché non conoscevano il Vangelo“, hanno affermato alcuni testimoni interrogati dalle forze dell’ordine. E’ accaduto a 48 ore dall’attentato di Dacca nel quale sono morte 20 persone di cui 9 italiani. Secondo il racconto dei sopravvissuti alla strage del Bangladesh i terroristi hanno torturato e ucciso gli ostaggi che non sapevano recitare alcuni passi del Corano.
Orrore nell’orrore. Ed è ciò che hanno ribadito all’indomani i tanti bengalesi che da anni vivono in Italia e che unanimemente hanno condannato la strage. Oltre centomila i bengalesi nel nostro paese secondo gli ultimi censimenti. Lavorano soprattutto in piccole attività commerciali, altri nel settore ospedaliero. Li troviamo alle pompe di benzina e quelli che non hanno trovato un’occupazione più stabile li incontriamo davanti ai semafori per un fulmineo lavaggio dei vetri prima che scatti il semaforo. Immancabili al ristorante per venderci una rosa.
Cosa c’entrano loro con la terribile strage di Dacca? E da ultimo, perché una parte dell’informazione continua a scatenarsi nelle campagne di odio? “Paghiamo chi ci uccide” ha titolato il quotidiano Libero all’indomani dell’attentato terroristico di Dacca: “Gli autori della strage in Bangladesh sovvenzionati anche dai bengalesi che vendono fiori e orologi sulle nostre spiagge”. L’incitamento all’odio non è libertà di espressione. E dal momento che le parole pesano come pietre evitiamo di utilizzarle per innalzare nuovi muri di ostilità e diffidenza.
P.S.: Proverbio bengalese: “Più si è poveri dentro e più si vuole apparire fuori”
Articolo di Stefano Corradino pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”