Del buon uso del patrimonio storico. Rapsodie sul futuro dei "luoghi della cultura" ad Orvieto

Il “Progetto Orvieto”

Un tempo, il libero Comune di Orvieto era una potente realtà politica che, dalle pendici della Rupe, si estendeva sino al mar Tirreno. Con il passar dei secoli, la brama di possesso territoriale venne ridimensionata, lasciando agli orvietani le vestigia d’una grandezza ormai scomparsa. Fu così che importanti palazzi, costruiti per celebrare i fasti dell’autogoverno, restarono in mano pubblica.

L’occasione per recuperare al presente queste strutture emerse allorché, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta, la classe dirigente locale, nel massimo sforzo immaginativo, produsse quel documento destinato a mutare il volto alla città: il “Progetto Orvieto”. Una sorta di “libro dei sogni” che, grazie a la “Legge Speciale per Orvieto e Todi”, riuscì a raccogliere considerevoli risorse e a trasformare l’elemento onirico in opere reali.

Fu così che, accanto al consolidamento della rupe, furono realizzati imponenti lavori di restauro e rifunzionalizzazione di edifici pubblici e privati. L’idea vincente fu quella di elaborare i diversi interventi all’interno di una cornice “sistemica”, coniugando il recupero di contenitori storici con l’attivazione di processi di sviluppo economico compatibili con le “naturali” vocazioni  del centro urbano.

Tuttavia, il percorso non fu affatto lineare. Ripensamenti e rielaborazioni intervennero più volte a mutare l’idea originaria. Talvolta a causa di motivi tecnici, altre volte per l’inerzia della parte privata, altre volte ancora, a causa della suprema “ragion politica”.  Comunque, alla fine del progetto, Orvieto poteva ben dirsi trasformata. Da città “militare” (la Caserma Piave e la SMEF giungevano ad ospitare sino a 5mila soldati) era diventata una città dotata di modernissimi servizi rivolti al turismo congressuale e culturale.

La politica interpretò il ruolo del “deus ex machina”, spingendo sull’acceleratore del cambiamento.

In quel periodo fiorirono alcune intuizioni che giunsero alla piena maturazione più tardi, come quella di costituire un nucleo di alta formazione post-universitaria sul tema del recupero e consolidamento dei centri storici, rispetto al quale Orvieto poteva porsi come modello di eccellenza.

 

I chiaroscuri del presente
Volendo dar corso ad una provvisoria quanto emendabile riflessione sull’oggi, siamo costretti a confrontarci con una realtà ancipite, di difficile lettura. Per quanto riguarda la parte strutturale, il “Progetto Orvieto” può dirsi in buona parte realizzato: l’hardware, seppur con qualche limite, c’è. A destare maggior perplessità è la componente immateriale, il software, l’intelligenza che muove la materia.

Da una sommaria analisi, scopriamo che il Palazzo del Popolo (il Centro Congressi) resta inutilizzato per molti mesi all’anno. Talvolta ospita, è vero, grandi eventi, ma è ben lontano dal funzionare a pieno regime. Difficile attribuire responsabilità: le varie gestioni (pubblica, privata e mista) non hanno prodotto i risultati attesi. Nel sistema congressuale orvietano ci sono dei colli di bottiglia che rendono problematico il costituirsi di un’offerta appetibile. Uno su tutti: la ricettività. Manca il grande albergo e quindi chi è chiamato a organizzare un convegno è costretto a trattare con strutture diverse a prezzi diversi. Gli estensori del “Progetto Orvieto” non avevano ignorato il problema. Infatti, si pensò al San Francesco (un ex convento al centro storico di Orvieto) come spazio da adibire alla ricettività convegnistica. Non se ne fece nulla e tutto restò così com’è oggi.

Anche il Palazzo dei Sette, un bel complesso multifunzionale su tre piani posto al centro della città vecchia, sconta difficoltà legate ad una destinazione non sempre evidente. Per qualche tempo parve concretizzarsi l’idea di utilizzare il pianterreno come piccolo centro commerciale di prestigio, legato a “brand” affermati e di qualità. Con gli affitti, si pensava allora, si sarebbero potute finanziare attività culturali e artistiche da realizzarsi nei piani superiori. Questa ipotesi è tramontata. Oggi, il Palazzo dei Sette ospita mostre, convegni e offre i suoi spazi agli eventi più importanti (Umbria Jazz Winter, Orvieto con Gusto, Umbrialibri). Tuttavia, anch’esso è ben lontano dall’aver assunto una identità precisa e viene vissuto dagli stessi orvietani con una certa intermittenza.

Un discorso di tenore diverso va fatto per il Teatro Mancinelli e la Chiesa del Carmine, luoghi, questi, che conoscono una vitalità piuttosto intensa. Il Teatro riesce non soltanto a garantire un ottimo programma di spettacoli, ma anche a partecipare a co-produzioni di grande prestigio (come quella con Vincenzo Cerami e Nicola Piovani). La formula giusta l’ha assicurata l’Associazione Tema, un ente privato che gestisce il Mancinelli in maniera largamente autonoma.

Il Complesso del San Giovanni, di proprietà della Provincia, si presenta come una delle risorse monumentali più interessanti. Si tratta di una struttura polifunzionale che ospita, oltre all’Enoteca Regionale, anche una sala convegni e uno spazio espositivo. Al piano superiore si conservano i costumi del corteo storico. Anche questo complesso ha subito le alterne vicende legate ad una programmazione non sempre ricca di risorse. Nel prossimo futuro si chiamerà “Palazzo del Gusto”, una iniziativa a tre (Comune di Orvieto, Comunità Montana e Provincia di Terni) nata per organizzare attività continue di valorizzazione dei prodotti enogastronomici di qualità del territorio.

Da grande albergo quale avrebbe dovuto essere, l’ex Convento di San Francesco ospiterà invece una modernissima biblioteca e mediateca interamente cablata e dotata di spazi appositamente progettati per ricerche e studi. L’idea è quella di trasformare l’ex convento in uno strumento di supporto all’attività formativa del Centro studi.

Per quanto riguarda l’Auditorium della Chiesa dei SS.Apostoli troviamo una situazione curiosa: l’edificio è di proprietà della curia ma i soldi necessari al suo recupero sono giunti da parte pubblica. Raramente viene utilizzato e il suo destino sembra piuttosto indecifrabile.

Infine, la Chiesa di Sant’Agostino, un grande spazio un tempo dedito al culto sporadicamente sede di qualche evento o iniziativa e che sembra interessare molto la Soprintendenza.

 

Il futuro di Orvieto e il luoghi della cultura
Insomma, anche tra i “luoghi della cultura” orvietana ci sono luci e ombre, punte di eccellenza e momenti di curiosa inerzia. La questione principe sembra quella legata alle risorse economiche: troppi luoghi da gestire e far funzionare a fronte di troppi pochi soldi. Tant’è che, a più riprese, il sindaco Stefano Cimicchi ha auspicato una maggiore sensibilità da parte dei “mecenati” locali al fine di incrementare il flusso dei finanziamenti oggi in prevalenza pubblici.

Allargando lo sguardo ai musei, si incontrano problemi che invece hanno a che fare con il tema della produzione culturale. In sostanza, risultano assenti attività che, per analogia con il mondo delle imprese, potremmo chiamare di “Ricerca & Sviluppo”. Sono assenti laboratori o centri di restauro (sulla ceramica, ad esempio, che qui può vantare una tradizione millenaria) con la spiacevole conseguenza che molti laureati in discipline storico-artistiche sono costretti ad andarsene oppure a cambiare mestiere. Il Museo della Tradizione Ceramica, in fase di realizzazione, potrebbe invertire questa tendenza. Al suo interno, infatti, si prevede di impiantare un laboratorio scientifico per lo studio dei materiali ceramici. Un piccolo segnale, ma importante.

Tornando al discorso delle compatibilità economiche, ci troviamo dinanzi ad un sistema di luoghi di dimensioni notevoli che diventano colossali se commisurate ad una città di 20mila abitanti.  Al tempo del “Progetto Orvieto” si pensava che i soldi per la cultura non dovessero mai finire. Oggi la situazione è diversa e quello che allora era un torrente si è trasformato in un rigagnolo sempre più sottile. Inevitabilmente, si scopre che c’è una coperta troppo corta.

A meno di rinunciare a Umbria Jazz Winter e agli altre manifestazioni di prestigio, la soluzione non sta dietro l’angolo. E forse nemmeno il sacrifico dei grandi eventi potrebbe bastare.

Sul tema dei “luoghi della cultura” crediamo sia opportuno aprire una fase di confronto sul medio-lungo termine. Una scelta, questa, anche fastidiosa (i tempi della politica attuale mal si adeguano a ragionamenti sulla lunga durata) ma non più rinviabile e che deve essere necessariamente collegata all’idea che la città vorrebbe interpretare.

Ecco, quindi, che un collegamento con “Risorse per Orvieto Spa” diventa fondamentale. Decidere del futuro dell’ex Caserma Piave concentrandosi esclusivamente su quell’importante pezzo di rupe, dissiperebbe una straordinaria occasione per ridefinire il “sistema” nella sua totalità. Per forza di cose, bisogna pensare in maniera “complessa”, tenendo insieme l’economia e la cultura, lo sviluppo e l’identità, il nuovo e l’esistente, l’effimero e l’eterno, il centro e le periferie, i rapporti con le reti internazionali e con i nodi locali.

Forse si tratta di una missione impossibile? Può darsi, ma l’imperativo categorico è quello di tentare, con lo sguardo proteso su ciò che resterà di solido e permanente. Se l’operazione dell’ex caserma si risolvesse soltanto nell’aggiungere pezzi, sia pure strategici, al tutto, lascerebbe invariate le criticità.  A rendere ancor più interessante la vicenda delle nuove ristrutturazioni, ricordiamo anche il complesso dell’ex Ospedale di Santa Maria della Stella, sede del Centro Studi, dell’Osservatorio sulla Rupe e di vari uffici municipali e provinciali. Secondo gli amministratori comunali, l’ex ospedale dovrebbe diventare la sede del polo umanistico universitario e formativo. C’è da risolvere la questione della proprietà (oggi della ASL), ma si pensa possa essere risolta senza particolari scontri.

Da tempo abbiamo appreso che qualità della vita è uno dei fattori di competitività di un territorio (il “leisure” che, secondo Giuseppe De Rita, porrebbe alcune realtà del Centro Italia in posizioni di primato mondiale). Sarebbe quindi auspicabile che proprio dal recupero della “Piave” principiasse una riflessione radicale sul senso di quello “Slow” che la città di Orvieto si è attribuita.

L’intuizione di Stefano Cimicchi, al di là della consistenza fattuale dell’iniziativa, è notevole poiché introduce degli elementi “eversivi” ma che stentano a trovare una traduzione pratica. La “Città Slow”, ad essere pignoli, implica un ripensamento del piano del traffico, delle zone pedonali, degli orari, dell’urbanistica, della sostenibilità ambientale e anche dei luoghi destinati alla cultura sia da offrire ai visitatori sia agli abitanti di Orvieto. Implica un protagonismo dei cittadini e degli operatori economici all’interno di una cornice ecologica in senso lato, dedita sì agli affari ma anche al benessere di tutti e ai piaceri.

A tal proposito, l’ipotesi di Richard Florida sul contesto socio-culturale che farebbe da sfondo all’ascesa della nuova classe creativa può tornare utile. Pur non condividendo in toto il procedere e le conclusioni del sociologo-economista statunitense, la sua lettura dei processi di insediamento della nuova élite della società informazionale offre interessanti spunti di riflessione.

Questa classe sociale emergente in grado, secondo Florida, di orientare le scelte di localizzazione delle imprese, preferisce vivere in luoghi del benessere, con una precisa identità storica ma anche aperti al nuovo e al diverso. Luoghi ricchi di opportunità culturali e di entertainment, luoghi dove sia possibile un uso del tempo meno legato ai ritmi della società industriale. Usiamo il testo di Richard Florida come suggestione e chiediamoci se non sarebbe in caso di osare qualche iniziativa non ortodossa in quegli spazi pensati per la cultura degli anni Ottanta.

Terminiamo con l’Università, altro elemento fondamentale per comprendere il possibile destino dei “luoghi della cultura”. Sulla presenza accademica in molti, giustamente, scommettono. Ma l’Università deve essere concepita come un’ennesima occasione per ottimizzare il sistema e per generare valori aggiunti da disseminare nel territorio. Valori da intendere come capitale cognitivo incarnato sia nei cervelli delle persone sia nei luoghi e nelle attività.

L’Università è uno strumento per la produzione e la condivisione di saperi che deve rispondere alla vocazione del territorio ma anche alle trasformazioni economiche e che quindi deve consentire un intreccio virtuoso tra formazione, ricerca e mondo del lavoro. L’esperienza della formazione universitaria è soprattutto esperienza di autonomia, capacità di “imparare ad imparare”, disponibilità al cambiamento, acquisizione di strumenti critici e di capacità di giudizio. Investire nell’Università significa quindi investire per una società migliore.  Ma l’Università può e deve essere anche una risorsa strategica laddove  si riconosce alla cultura un ruolo fondamentale per lo sviluppo economico della città, perseguendo strategie che favoriscano la crescita del capitale culturale attraverso la continua ricerca di nuovi prodotti e nuovi settori di investimento. La cultura non può essere una parola vuota, ma una risorsa da rendere sempre attuale. Un settore di investimento che possa restituire moltissimo non soltanto in termini di immagine, ma di economia, occupazione, qualificazione; tale da svolgere una funzione trainante per tutta la città. D’altronde l’Università non ha in sé poteri taumaturgici, ma può contribuire incisivamente a creare le condizioni per un buon uso del patrimonio culturale.

(Stefano Corradino e Vittorio Tarparelli – Micropolis)