NICCOLO FABI: "Ecco", ho realizzato un sogno

 

Un cantautore pop  minimalista. Così, con  tutti i limiti propri delle  classificazioni, si potrebbe definire Niccolò Fabi, autore di  musica e testi dei brani che esegue, scrupolosamente costruiti senza  lasciare nulla al caso nelle parole, nel linguaggio. Sarà anche perché si è laureato in Filologia romanza con una tesi in codicologia, la disciplina  che studia i manoscritti? Lo abbiamo incontrato pochi giorni fa nella Sala A della Rai di via Asiago dove si  teneva il primo appuntamento del 2013 di Radio2 Live, media partner del tour nei teatri. Affabile e disponibile, semplice e sintetico,  ma profondo nelle sue riflessioni  sulla musica e sulla società. Non stacca lo sguardo dal suo  interlocutore quando parla ed ascolta. Poi ad un tratto si alza.  Arriva il pubblico e lui vuole salutare uno ad uno tutti i suoi fans prima di  salire sul palco.  

Partiamo dal titolo: “Ecco”.  Immediato e sintetico. Perché  questa scelta? Un modo per dire facciamo il punto, tracciamo una  sintesi? 
Può essere più cose insieme.  Dipende in fondo anche da cosa  chiedi al titolo stesso, se deve raccontarti tutto quello che c’è nel  disco o sola una porzione. È difficile  comunque trovare un titolo che  possa rappresentare l’intero album.  In ogni caso, invece di scrivere cosa  c’è nel disco, “Ecco” vuole  comunicare che il disco c’è, una  notizia a mio avviso già  sufficientemente importante in questo momento storico difficile  anche per la discografia italiana. 

Un lavoro piuttosto apprezzato  visto che il pubblico, al momento  dell’uscita, il 9 ottobre scorso, lo  ha innalzato al terzo posto delle  classifiche di vendita e in cima alle “charts” di iTunes 
Non posso non gioirne. Anche la  tournée che ci apprestiamo ad  iniziare nei vari teatri italiani promette molto bene in termini di  presenze del pubblico.  

Oltre quindici anni di carriera, è  già tempo di bilanci? 
Quelli li faccio sempre, non dal  punto di vista finanziario né per  tracciare una storia della mia carriera, ma mi aiutano a correggere  il tiro e capire come lavorare meglio.  Il fatto che io sia ancora qui dopo quindici anni è un dato non da poco  per uno che da giovane aveva come  sogno principale quello di fare il  musicista.  

Come cambia un musicista dopo  anni di carriera e soprattutto in  questo momento storico? Molti dei suoi colleghi piuttosto che sfornare  dischi con pezzi inediti riarrangiano  sotto altre forme pezzi già scritti,  cover… Siamo in crisi di creatività? 
Non credo. Se lei ascolta artisti più  giovani che iniziano a farsi  conoscere adesso, può vedere che le idee ci sono. Magari chi fa musica da  venti o trent’anni ha più difficoltà a  conservare la motivazione iniziale,  ad avere gli stessi “occhi della  tigre”, ma è inevitabile.

Vale anche per lei? 
Io ho pubblicato questo disco  perché partivo da forti motivazioni  e, nel lavorarci, mi sentivo quasi un esordiente. Non uno che conserva  un obiettivo raggiunto, ma uno che  vuole conquistare sempre spazi  nuovi. Finché sarò ispirato da queste  sensazioni, continuerò a pubblicare.  Ma quando non ne avrò più, non ci  sarà un Niccolò Fabi che incide tanto  per farlo. O per vendere. 

“Così come il musicista corteggiato  dalle sirene e le insidie  dell’industria vuole proteggere la sua arte dal mercato la sua  qualità”. Sono alcuni versi del  brano “Indipendente”. Nella  musica il mercato va a detrimento  della qualità? 
Non voglio arrivare a dire questo,  semplicemente penso che un  musicista debba poter coltivare il suo desiderio di indipendenza  artistica. Ma in fondo siamo nel  mondo. Intorno a ciascuno di noi ci  sono genitori, fidanzate, amici,  datori di lavoro e ognuno di essi è  una sorta di ostacolo per l’indipendenza pura. Per questo ciò  che bisogna ricercare è quel giusto  equilibrio per conservare la propria  libertà interagendo con gli altri.  

“Indipendente dall’ossigeno, dal  denaro”, prosegue il testo… 
Ovviamente questo concetto non si  può prendere alla lettera. Non possiamo estraniarci completamente dal denaro e dal  mercato. Se decidi di diventare uno  “stilita”, vai nel deserto e dedichi la  tua vita alla contemplazione e alla  preghiera, allora forse riesci ad  essere completamente indipendente.  Ma se se vivi a Roma è un po’ più  difficile… Quindi totale  indipendenza no, ma cercare di non  essere schiavi del mercato questo sì,  lo dovremmo fare.  

In una recente intervista lei ha  detto che non ama particolarmente  la televisione perché “non è un contenitore neutro”. In che senso? 
La tv ha un colore, un linguaggio  che non può essere messo in  discussione. Non lo critico, ma mi limito a dire che non mi appartiene.  La sintesi portata all’eccesso negli  slogan e la spettacolarizzazione mi  mettono in difficoltà. Da ospite in tv  cerco piccoli contesti in cui tento di mantenere il mio linguaggio, ma  non è cosa semplice.  

E da spettatore? 
Seguo alcune cose, ma poche. Amo  la tv che mi fa venire curiosità, che  alimenta la mia voglia di viaggiare  e  di approfondire. Invece non mi  piace quella che mi costringe alla  serialità: “ci vediamo tra tre  minuti”, “ci vediamo la settimana  prossima”… 

Sanremo, i talent show e altri  programmi recenti hanno riportato  sotto varie forme la musica in televisione. Lo fanno in modo appropriato? 
No, e non è neanche colpa della tv.  Il punto è che il linguaggio della  musica e della tv sono proprio diversi. Le emozioni che può  suscitare l’ascolto di un concerto  dal vivo sono irriproducibili in televisione. D’altronde come fa la  freddezza di uno schermo a  riprodurre l’ambiente, le persone, il calore, la potenza della musica? Ci vorrebbe tantissima cura, ma la  maggior parte dei programmi televisivi non ne hanno per la  musica. I talent hanno molta  attenzione per lo spettacolo  musicale, ma la musica è un’altra  cosa. 

Un brano altrettanto sintetico nel  titolo è “Io”, dove lei introduce un  altro tipo di riflessione: “Si chiama  egomania – così si chiude la  canzone – la nuova malattia di  questa società dell’io”. L’affermazione dell’io è una  componente genetica dell’uomo o  è frutto di un’involuzione della società? 
In parte è genetica: i bambini hanno  bisogno di trovare una  consapevolezza della propria  identità, ma altra cosa è  l’esasperazione, propria della  società attuale, del concetto di “io!  invece che di “noi”.  

Vale solo per la società o anche per  la politica? 
Beh sì. Fino a quando l'”egomania”  riguarda un cantante gliela puoi  pure perdonare, ma quando si tratta  ad esempio di un presidente del  consiglio è più pericoloso. 

Quale tipo di Paese lei vorrebbe che  si affermasse in questo nuovo  anno?  
Mi piacerebbe che l’Italia tornasse a  un livello più normale anche dal  punto di vista politico e che  smettesse di essere quel chiassoso  pollaio in cui si perdono di vista le  necessità primarie e il concetto di  bene comune. 

di Stefano Corradino

http://www.ufficiostampa.rai.it/sfogliabile/92256/17856/swf/TVRADIOCORRIERE_02.pdf

 

 

 

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n cantautore pop 
minimalista. Così, con 
tutti i limiti propri delle 
classificazioni, si potrebbe 
definire Niccolò Fabi, autore di 
musica e testi dei brani che esegue, 
scrupolosamente costruiti senza 
lasciare nulla al caso nelle parole, 
nel linguaggio. Sarà anche perché si 
è laureato in Filologia romanza con 
una tesi in codicologia, la disciplina 
che studia i manoscritti? Lo abbiamo 
incontrato pochi giorni fa nella Sala 
A della Rai di via Asiago dove si 
teneva il primo appuntamento del 
2013 di Radio2 Live, media partner 
del tour nei teatri. Affabile e 
disponibile, semplice e sintetico, 
ma profondo nelle sue riflessioni 
sulla musica e sulla società. Non 
stacca lo sguardo dal suo 
interlocutore quando parla ed 
ascolta. Poi ad un tratto si alza. 
Arriva il pubblico e lui vuole salutare 
uno ad uno tutti i suoi fans prima di 
salire sul palco. 
Partiamo dal titolo: “Ecco”. 
Immediato e sintetico. Perché 
questa scelta? Un modo per dire 
facciamo il punto, tracciamo una 
sintesi?
Può essere più cose insieme. 
Dipende in fondo anche da cosa 
chiedi al titolo stesso, se deve 
raccontarti tutto quello che c’è nel 
disco o sola una porzione. È difficile 
comunque trovare un titolo che 
possa rappresentare l’intero album. 
In ogni caso, invece di scrivere cosa 
c’è nel disco, “Ecco” vuole 
comunicare che il disco c’è, una 
notizia a mio avviso già 
sufficientemente importante in 
questo momento storico difficile 
anche per la discografia italiana.
Un lavoro piuttosto apprezzato 
visto che il pubblico, al momento 
dell’uscita, il 9 ottobre scorso, lo 
ha innalzato al terzo posto delle 
classifiche di vendita e in cima alle 
“charts” di iTunes
Non posso non gioirne. Anche la 
tournée che ci apprestiamo ad 
iniziare nei vari teatri italiani 
promette molto bene in termini di 
presenze del pubblico. 
Oltre quindici anni di carriera, è 
già tempo di bilanci?
Quelli li faccio sempre, non dal 
punto di vista finanziario né per 
tracciare una storia della mia 
carriera, ma mi aiutano a correggere 
il tiro e capire come lavorare meglio. 
Il fatto che io sia ancora qui dopo 
quindici anni è un dato non da poco 
per uno che da giovane aveva come 
sogno principale quello di fare il 
musicista. 
Come cambia un musicista dopo 
anni di carriera e soprattutto in 
questo momento storico? Molti dei 
suoi colleghi piuttosto che sfornare 
dischi con pezzi inediti riarrangiano 
sotto altre forme pezzi già scritti, 
cover… Siamo in crisi di creatività?
Non credo. Se lei ascolta artisti più 
giovani che iniziano a farsi 
conoscere adesso, può vedere che le 
idee ci sono. Magari chi fa musica da 
venti o trent’anni ha più difficoltà a 
conservare la motivazione iniziale, 
ad avere gli stessi “occhi della 
tigre”, ma è inevitabile. 
Vale anche per lei?
Io ho pubblicato questo disco 
perché partivo da forti motivazioni 
e, nel lavorarci, mi sentivo quasi un 
esordiente. Non uno che conserva 
un obiettivo raggiunto, ma uno che 
vuole conquistare sempre spazi 
nuovi. Finché sarò ispirato da queste 
sensazioni, continuerò a pubblicare. 
Ma quando non ne avrò più, non ci 
sarà un Niccolò Fabi che incide tanto 
per farlo. O per vendere.
“Così come il musicista corteggiato 
dalle sirene e le insidie 
dell’industria vuole proteggere la 
sua arte dal mercato la sua 
qualità”. Sono alcuni versi del 
brano “Indipendente”. Nella 
musica il mercato va a detrimento 
della qualità?
Non voglio arrivare a dire questo, 
semplicemente penso che un 
musicista debba poter coltivare il 
suo desiderio di indipendenza 
artistica. Ma in fondo siamo nel 
mondo. Intorno a ciascuno di noi ci 
sono genitori, fidanzate, amici, 
datori di lavoro e ognuno di essi è 
una sorta di ostacolo per 
l’indipendenza pura. Per questo ciò 
che bisogna ricercare è quel giusto 
equilibrio per conservare la propria 
libertà interagendo con gli altri. 
“Indipendente dall’ossigeno, dal 
denaro”, prosegue il testo…
Ovviamente questo concetto non si 
può prendere alla lettera.
Non possiamo estraniarci 
completamente dal denaro e dal 
mercato. Se decidi di diventare uno 
“stilita”, vai nel deserto e dedichi la 
tua vita alla contemplazione e alla 
preghiera, allora forse riesci ad 
essere completamente indipendente. 
Ma se se vivi a Roma è un po’ più 
difficile… Quindi totale 
indipendenza no, ma cercare di non 
essere schiavi del mercato questo sì, 
lo dovremmo fare. 
In una recente intervista lei ha 
detto che non ama particolarmente 
la televisione perché “non è un 
contenitore neutro”. In che senso?
La tv ha un colore, un linguaggio 
che non può essere messo in 
discussione. Non lo critico, ma mi 
limito a dire che non mi appartiene. 
La sintesi portata all’eccesso negli 
slogan e la spettacolarizzazione mi 
mettono in difficoltà. Da ospite in tv 
cerco piccoli contesti in cui tento di 
mantenere il mio linguaggio, ma 
non è cosa semplice. 
E da spettatore?
Seguo alcune cose, ma poche. Amo 
la tv che mi fa venire curiosità, che 
alimenta la mia voglia di viaggiare  e 
di approfondire. Invece non mi 
piace quella che mi costringe alla 
serialità: “ci vediamo tra tre 
minuti”, “ci vediamo la settima