Poca luce. Sulle pareti foto, ritagli di giornali e riviste. Pareti dense quelle della stanza di Enrico Ghezzi , il creatore di “Blob” e “Fuori orario”. Sulla scrivania libri, cd, qualche quotidiano, alcuni più recenti altri ingialliti dal tempo. Un cappello grigio. La bobina di un 35mm nella tradizionale custodia metallica.
La pellicola. Quasi un reperto storico nell’era del digitale. Quale film è?
Una copia-lavoro in bianco e nero di “Nostra signora di tutti” di Carmelo Bene.
Un bene da custodire?
Solo in parte. Una delle grandi utopie-truffa del cinema è quella della preservazione delle pellicole. La restaurazione delle copie. Senza sapere poi che nove volte su dieci il restauro avviene già sulla base di una copia in digitale.
Fa sempre uno strano effetto vederne una. Un po’ come un 33 giri. Roba “vintage”, si direbbe oggi. Magari domani sarà il libro sostituito dalla tavoletta elettronica; oppure lo leggeremo direttamente attraverso lenti a contatto.
Un diciassettenne che oggi sale su un treno si trova in mezzo ad una moltitudine di gente con un computer o un tablet. Qualcuno ci lavora, altri scorrono le pagine, leggono, scrivono. Tra un po’ saranno la maggioranza. Ciò non potrà in futuro che aumentare la vendita di libri o di quaderni nei quali scrivere. O dei libri lasciati sui tavolini dei treni per uno scambio casuale. Ogni predominio genera una sorta di risacca.
Per adesso è più facile vedere un viaggiatore con la testa china su un display che con una matita a sottolineare. Poi con i computer scarichi anche i film.
“Quel film, ah non l’ho visto… Beh, lo tiro giù da internet”, sento spesso ripetere. Come se ci fosse un firmamento da cui tiro giù delle stelle: il desiderare diventa vero. Il possesso in qualsiasi momento che ti da un senso di tranquillità. Ce l’ho, poi lo vedrò. Ma ogni volta che dico così mi allontano da quell’oggetto. Lo vedrò. Sì, ma quando? Durante una pausa? In vacanza? Sulla poltrona di casa mentre sono malato?
Forse non più al cinema. Settore in crisi. Le sale tradizionali chiudono.
Ciro Giorgini, uno dei pilastri di Fuori Orario sta documentando Roma e la sparizione delle sale; una trasformazione che cercheremo di far diventare anche qualcosa di televisivo.
Spariscono le sale per lasciare il posto… alle multisale.
L’aspetto più antipatico dei multiplex è che lo spettatore è concepito come una sorta di pallina da flipper che deve riempire per forza le sale. E se la sala è piena chi è che sbatte la porta e se ne va? Hai fatto alcuni chilometri in strada, hai trovato parcheggio, tuo figlio ha in mano i popcorn, a questo punto resti. Magari puoi vedere anche un film migliore ma non è una scelta libera…
Un processo inarrestabile
Ma non improvviso. Coppola già venti anni fa discuteva di come approvvigionare le sale collegandole via satellite. E sperava che nel giro di due o tre anni questa rivoluzione si realizzasse. Il progresso, tecnologico e mentale non è mai rettilineo. E il futuro, lo sappiamo, è continuamente rinviato, non più del presente peraltro.
Nessun rimpianto per le sale di un tempo? Vengono in mente le scene di “Nuovo Cinema Paradiso”
Il piccolo film di Tornatore ha per me soprattutto il pregio di riportare alla memoria quelle sale in cui lo spazio era un paradiso di inferni fumiganti. La gente tossiva. La nebbia del fumo impediva a tratti di vedere “bene” il film. Ma l’abbandono al vedersi reciproco tra l’immagine e noi era maggiore e più vicino alla forma cinema…
Un’esperienza sensoriale diversa. Quasi una terza dimensione. Oggi però il 3D è una realtà.
Realtà patetica e fin troppo povera. Salvo la voglia di avvicinarti all’attrice per baciarla gettandoti verso lo schermo. Già negli anni venti dopo l’avvento del sonoro c’era chi chiedeva di più. Nonostante la fiera reazione di teorici, critici e autori già pronti a rimpiangere la fantomaticità seducentissima dell’immagine muta c’era chi avrebbe voluto di più a partire dall’attrice che si siede direttamente sulle gambe dello spettatore. Chi voleva gli odori, chi voleva tutto. Il 3D è un bel paradosso, un balzo all’indietro. Non si distingue la vita registrata da quella che crediamo di vivere. Persone-ologramma che appaiono e si (s)materializzano…
Nessun trauma nel passaggio dalla pellicola al digitale?
Registi tra i più “pellicolari”, scettici e feroci sulla facilità d’uso e di proliferazione quasi cancerosa del video – come Wim Wenders o David Lynch – quando hanno sostituito con una telecamerina l’ingombro della troupe si sono sentiti di colpo felici: potevano essere ancora più autori di prima; l’occhio sempre più confuso con quello della macchina.
In questo contesto di trasformazioni qual è il rapporto del cinema con la televisione?
Penso che il cinema sia entrato da tempo nell’orbita televisiva. Si può dire addirittura che il cinema non esiste più. Almeno quello che conosciamo tradizionalmente.
Tv e cinema un unico grande fratello orwelliano?
Non è solo un problema del mezzo, è la società attuale. Sono le parole d’ordine identificative. Se uso frequentemente la parola terrorismo al telefono è assai probabile che sarò inserito in una lista di persone da tenere sotto controllo. Pensiamo anche ad internet: google è uno strumento affascinante, una forma avanzata e universale di spionaggio. Sui consumi, sugli amici.
Ciò non lo rende neutrale.
Può esserlo all’inizio ma non successivamente. E’ neutrale la raccolta dei dati. Ma quando digitando un comando esprimi apprezzamento per un oggetto e poi ti viene proposto un altro dello stesso genere ecco che perde tutta la neutralità. E se a me piacesse proprio la differenza?
Il prossimo anno è il venticinquesimo dalla nascita di “Blob”.
Fui chiamato a Roma per occuparmi del cinema di Rai3. Il culmine di quel gioco-lavoro fu una quaranta ore no stop dei novanta anni del cinema. Avendo in mente quella trasmissione impossibile Angelo Guglielmi mi chiamò nella Rai3 che si trovò a dirigere e fu grazie alla sua “follia” che Blob partì, insofferente di qualsiasi censura. Oggi non si autorizzerebbe neanche un numero zero di un programma così alegale.
Un montaggio di spezzoni audio e video estratti dai programmi di emittenti diverse. Semplice ma rivoluzionario. Sempre uguale a se stesso ma sempre diverso.
E’ la fabbrica dell’uomo televisivo: cambiano tutti i mattoni ma poi resta lo stesso muro.
C’è chi lo considera il prodotto più geniale e avanzato nella storia della televisione.
Scriveva Rimbaud: “Le progrès. Le monde marche! Pourquoi ne tournerait-il pas? Invece che avanzare perché non pensare che il mondo gira?
Mai pensato ad una “evoluzione” di Blob?
Il mio rammarico è stato quello di non arrivare ad una “istantaneità”, un blob in onda sulla diretta con cambi di camere più materiali preparati. Un’esperienza teatrale performativa.
E’ anche l’anniversario di “Fuori orario”. Film muti, in bianco e nero, pellicole giapponesi sottotitolate in inglese… Scelte eccentriche? Oppure – termine più ricorrente per chi giudica le sue predilezioni – di nicchia?
“Nicchia” è un termine divertente, molto vecchio, fa pensare alle statue, alle sculture, alla chiesa. Qualcosa che ti blocca perfino l’ombra… Non ho mai voluto fare un programma di nicchia. Se volessimo potremmo fare benissimo una programma con gli stessi film trasmessi in prima serata, trattati diversamente.
Agli inizi “Fuori orario” andava in onda una volta a settimana, il giovedì.
Partimmo letteralmente fuori orario: non eravamo neanche programmati nel Radiocorriere tv: occupavamo lo spazio lasciato libero dallo sbordare di Samarcanda.
Ghezzi al cinema. Quante volte a settimana?
Vorrei andarci almeno due volte al giorno ma non posso. E allora preferisco sorprendermi guardando la tv a tarda notte. In ogni caso ho sempre la sensazione di andare al cinema, anche quando non sono al cospetto di un film.
Il film più brutto visto quest’anno.
Quello più brutto mi manca…
Forse perché lei preseleziona attentamente quello che intende vedere. Diciamo allora il più sopravvalutato.
“Il lato positivo”, alcuni ottimi attori in una commedia scritta ma abbastanza informe.
Il migliore.
Più di uno. E’ stato un grande anno per il cinema americano. “Django unchained”, “Lincoln”, “Cloud Atlas”, “Zero Dark Thirty” della Bigelov molto più bello di quello con cui lei ha vinto l’Oscar l’anno precedente. Dimenticavo: “Flight” di Robert Zemeckis, film di “leggerezza pesante”, di sogno utopico delirante, di inquietudine volatile.
L’intervista è quasi conclusa. Squilla il telefono. Spingo lo stop del registratore. “Le pause non le trascrivo” sussurro prima che Ghezzi alzi la cornetta. “Io – risponde con voce flebile – tengo particolarmente a quelle”.
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