“…E’ la crescita che produce il debito! Se invece dicessimo: produciamo solo quello che di cui c’è davvero bisogno mirando a fare economia (in senso stretto!) e non business (la fortuna di pochi), vedremo che staremo tutti meglio”. Paolo Cacciari, giornalista, ex parlamentare ed oggi membro dell “Associazione per la Decrescita”, intervistato da Articolo21, analizza a tutto campo la crisi economica ed internazionale, che è crisi “del modello neoliberista e monetarista”. Quella di Cacciari (e non solo lui) è una visione altra dell’economia e delle relazioni sociali “Avere più tempo da dedicare ai propri affetti ti fa vivere meglio”.
Le istanze della manifestazione di sabato 15 ottobre sono state praticamente oscurate dagli scontri che hanno messo la Capitale a ferro e fuoco. Ma le rivendicazioni degli indignati restano. “Noi la crisi non la paghiamo” recitava lo slogan portante delle mobilitazioni. Quali sono i soggetti più colpiti dalla crisi e quelli maggiormente responsabili di averla prodotta? In che modo questi ultimi possono essere inchiodati alle loro responsabilità?
E’ la politica che deve farlo? O sono le stesse istituzioni economiche e finanziarie a doversi “autoriformare”?
I giovani nelle piazze di tutto il mondo rivolgono a chi ci governa una domanda molto semplice: se chi ha provocato la crisi economica che si protrae da oltre tre anni sono stati operatori finanziari imprevidenti, intermediari di capitali spregiudicati, gestioni speculative delle valute e dei titoli azionari, perché non sono costoro a pagarne i costi? Perché i capi dei governi invece di porre il sistema bancario sotto rigido controllo svuotano le casse pubbliche e impegnano i denari dei contribuenti per tamponare i buchi di bilancio (crediti inesigibili) delle banche private? Perché i movimenti di capitale continuano a fluttuare liberi come l’aria, mentre le economie reali, l’occupazione, il potere d’acquisto dei salari precipitano? La risposta che viene dall’establishment è disarmante: i debiti sono troppo grandi per essere lasciati insolvibili.
“Default”, è il termine che più di ogni altro sembra terrorizzare gli Stati. Cosa succederebbe se fallissero le banche e gli stati?
Appunto. Non è più dato scegliere se salvare quattro banche o uno stato. La dichiarazione di fallimento di più istituti bancari e/o di più stati potrebbe avere un effetto di trascinamento (contaminazione, la chiamano) davvero dirompente in un sistema economico internazionale integrato e comandato dalla finanza come è quello in cui viviamo. Ma questa verità non può essere una scusa per lasciare le cose come sono, per non affrontare le cause strutturali che sono all’origine della crisi finanziaria, per non individuare e rimuovere i responsabili (che non sono solo dentro le banche e i governi, ma anche tra i prezzolati teorici del neoliberismo e del monetarismo dentro le accademie universitarie) e, quindi, operare i cambiamenti profondi che sono necessari. A proposito di “riforme” che non si fanno.
La politica è ostaggio dell’economia?
Le persone per bene si sono “indignate” proprio perché vedono che la politica è ostaggio dei detentori dei titoli di credito, dei capitalisti che continuano a pretendere ed ottenere tassi di rendimento (rendite finanziarie) dieci, venti volte superiori ai tassi di profitto reali delle imprese. Quando anche i manager dell’industria vengono pagati con le stock option (penso a Marchionne), cioè con le azioni e non con i fatturati industriali, allora si capisce bene che il sistema economico è semplicemente impazzito. Per essere più precisi: si regge solo grazie all’immissione di dosi sempre più massicce di droga. Droga di stato: stampa di cartamoneta, ricapitalizzazioni, acquisto di bond che non valgono nulla, rinuncia al prelievo fiscale, ecc.
Tu sei uno dei principali animatori italiani della cosiddetta “decrescita”, modello altro di sviluppo che gli stessi giovani indignati hanno più volte evocato. A prima vista sembra un paradosso. Una delle accuse rivolte all’Italia e ad altri Paesi è che sono a “crescita zero”. Voi affermate il concetto contrario: l’aumento del Pil non aumenta il benessere generale; il problema non è privilegiare la crescita ma “fermarla”, redistribuire le risorse globali. Come si realizza praticamente?
E no, sono loro immersi in una spirale perversa! La crescita del volume del valore monetario delle merci in circolazione (del Pil) può avvenire solo facendo altri enormi debiti. Ma ogni debito ha il difetto di portarsi dietro un creditore che – se lasciato libero – chiederà per se sempre qualche denaro in più del rendimento dei profitti industriali. E’ la crescita che produce il debito! Se invece dicessimo: produciamo solo quello che di cui c’è davvero bisogno mirando a fare economia (in senso stretto!) e non business (la fortuna di pochi), vedremo che staremo tutti meglio. La sfida più avanzata e moderna è: stare meglio con meno. E non penso solo agli sprechi, all’usa e getta, alla obsolescenza programmata per far durare meno gli oggetti, alle psicopatologie del consumatore compulsivo… Penso alla rarefazione delle risorse naturali (non solo il petrolio e l’uranio, ma il litio, senza del quale niente batterie per le auto elettriche, o i minerali rari, senza i quali niente telefonini, o il coltan, niente computer) che ci obbliga a diminuire i flussi di materie e di energia impegnati nei cicli produttivi. Questa è già una prima definizione, la più immediata e banale, se vuoi, di decrescita.
Un rallentamento della crescita economica e la conseguente diminuzione della produzione di merci non provocherebbe un aumento della disoccupazione e della povertà?
Non facciamo confusione: si possono creare e produrre dei beni, delle cose utili (e già ora se ne fanno moltissime, pensiamo solo al lavoro domestico, che non viene conteggiato nel Pil) senza che assumano per forza la forma di merci, valutate cioè in termini monetari e scambiate sui mercati globali. Certo, la nostra società spinge a mercificare ogni cosa: dalla cura dei bambini e degli anziani all’inquinamento atmosferico (una tonnellata di CO2 sulla borsa di Londra valeva ieri 18 euro), dalle sementi brevettate dalle multinazionali agro-farmaceutiche, al sesso… Ma è possibile ed auspicabile pensare di soddisfare i nostri bisogni e i nostri desideri senza necessariamente passare per un supermercato. Se solo l’enorme potenzialità della tecnoscienza fosse finalmente indirizzata a preservare l’ambiente e a ridurre il tempo di lavoro necessario alla produzione (e non invece a intensificare gli sforzi produttivi) riusciremmo tutti a vivere in ambienti più salubri e a lavorare meno. Non era questa la felicità?
La crescita economica ha dimostrato di essere diseguale, accrescendo l’ineguaglianza sociale, e concentrando ricchezze nelle mani di pochi. La “decrescita”, in questo caso, si concretizzerebbe come una sorta di azione alla “Robin Hood”, togliendo materialmente le ricchezze a chi ne ha di più per redistribuirle tra i ceti meno privilegiati?
Anche, certo: lavoro e ricchezza vanno meglio distribuiti. La società capitalistica crea per sua natura accumulazione e concentrazione di ricchezze. Fino a ieri tale diseguaglianza era giustificata perché – dicevano – aumentava la competitività, l’emulazione, la produttività del sistema tutto. Il concetto di “sviluppo” e di “sottosviluppo”, quando è nato, nell’immediato secondo dopoguerra, conteneva l’idea di una avanzata di tutte le nazioni del mondo. Era, a suo modo, un’idea universalista e progressista. Assistiamo oggi al fallimento storico di quella promessa. La forbice si allarga, nel mondo, ma anche terribilmente all’interno di ogni singolo stato. Non ci sono mai state nella storia dell’umanità disparità di ricchezze patrimoniali e reddituali così marcate. Pensate: le tre persone più ricche del mondo posseggono guadagni pari alla ricchezza dei 600 milioni di persone che abitano nei 48 paesi più poveri del pianeta. 257 individui possiedono quanto il 45% delle persone sulla terra (2,8 miliardi). Raccapricciante!
La decrescita presuppone una vera e propria rivoluzione culturale. Da dove partire? Quanto siamo schiavi della crescita e della logica del profitto a tutti i costi?
Serge Latouche dice che dobbiamo “decolonizzare l’immaginario” e Gregory Bateson scriveva di “ecologia della mente”. Dobbiamo compiere un lavoro di sgombro dalle macerie che ci ha lasciato il falso mito della crescita infinita. Elevare le capacità critiche del pensiero. Le rivoluzioni non si esportano e non cadono dall’alto. O sono molecolari, condivise dal basso, consensuali… o non sono rivoluzioni.
Anche per la decrescita sarà così?
Sì, una rivoluzione democratica, scelta, partecipata. La decrescita già si vede in mille pratiche individuali e comunitarie. Si coniuga con l’“altra economia”, con l’economia solidale e sociale e con la gestione collettiva dei beni comuni, il nuovo potente paradigma (riscoperto anche grazie al Nobel alla Elinor Ostrom) che ci indica come sia possibile transitare dalla società del possesso a quella dell’essere, dalla competizione alla cooperazione, dal saccheggio alla preservazione, alla sufficienza, all’abbastanza, alla frugalità. E non per angelico francescanesimo, ma perché smarcarsi dalle costrizioni produttivistiche e consumistiche è bello. Saper fare da sé soddisfa. Avere più tempo da dedicare ai propri affetti ti fa vivere meglio. Scambiarsi oggetti, servizi, mezzi di trasporto, abitazioni… allarga i tuoi orizzonti. Prendersi cura delle cose pubbliche aumenta le occasioni di occupazione.
Da giornalista, quanto contribuiscono i media ad incentivare i consumi materiali superflui rispetto a una logica del consumo responsabile?
Dico sempre (vedi: Decrescita o barbarie, scaricabile gratuitamente da internet) che noi, persone comuni, siamo sicuramente scemi, “schiavi volontari” di convenzioni sociali e dispotismi di chi ci comanda. Ma anche loro devono impegnarsi molto per renderci così docili. I due settori economici che non conoscono crisi sono gli armamenti e la pubblicità: il bastone e la carota necessari per mantenere inalterato uno stato di cose che altrimenti, senza violenza e senza manipolazione delle menti, salterebbe subito. Tu mi chiedi dei media. Oggi televisioni e rotocalchi, ma anche la stragrande maggioranza dei quotidiani – tu mi insegni – non vendono notizie: vendono spazi pubblicitari, se è vero che gli editori ricavano più denari dagli inserzionisti che non dai lettori.
La “decrescita” parte da un rifiuto netto dei principi dell’economia liberista o si può costruire all’interno del libero mercato stesso?
Anche all’interno dei sostenitori della decrescita vi sono opinioni e tendenze diverse, più o meno radicali nei confronti del mercato. Nella Conferenza internazionale sulla decrescita, la sostenibilità ambientale e la giustizia sociale di Barcellona lo scorso anno (la prossima si terrà a Venezia nel settembre del 2012) si sono sentite molte voci e viste esperienze diverse. Si va da Tim Jechson (autore di: Prosperità senza crescita, Edizioni Ambiente 2011) che dirige un gruppo di ricerca governativo del Regno Unito, al Wuppertal Institute (Futuro sostenibile. Le risposte eco-sociali alle crisi in Europa, sempre di Edizioni Ambiente) guidato da Wolfgang Sachs che è stato un allievo di Ivan Illich, per arrivare ai francesi del “Journal la Décroissance” che sicuramente sono i più anticapitalisti. Quello che penso io è sicuramente poco importante, ma i mercati, come le monete, esistevano prima del capitalismo e, per molti prodotti e se ben regolamentati, potrebbero continuare ad avere un ruolo positivo. Il guaio è quando profitto e accumulazione diventano la regola aurea, esclusiva e totalizzante dei rapporti sociali, quando natura e lavoro diventano meri strumenti (coseificazione e alienazione) per l’accrescimento del capitale impiegato nei cicli produttivi. La famosa “distruzione creativa” schumpeteriana – s’è visto – distrugge più di quanto non riesca a creare.
Questo nuovo paradigma socio-economico sembra avvicinarsi alle tesi dei modelli socialisti o comunisti di matrice marxista. In che modo la “decrescita” si sovrappone o si differenzia da queste tesi e dalle sue applicazioni pratiche così come le abbiamo conosciute? (Urss, Cuba, Cina…)
Nonostante intuizioni profetiche – anch’io ho tentato di mettere in relazione marxismo ed ecologismo (“Pensare la decrescita, Carta e Intra Moenia”, 2006, ndr) . Molto più approfondito il libro di Badiale e Bontempelli: “Decrescita e marxismo”; Marx non riesce a liberarsi dal fascino del progresso tecnologico industriale. E credo che si possano far risalire a lui molte responsabilità della parabola dell’esperienza sovietica. Con il “capital comunismo” cinese, invece, credo proprio che il povero Marx non c’entri per nulla. Ho letto che a Cuba si stanno facendo esperienza importanti nel tentativo di riterritorializzare l’economia. Così come entusiasmanti sono le esperienze in corso in Ecuador, dove i diritti di Pacha Mama, la madre terra, sono stati costituzionalizzati.
Insomma dovremmo cominciare a imparare a fare quello di cui abbiamo bisogno con quello che abbiamo?
E’ così, rinunciando definitivamente a mire imperiali, a superiorità coloniali, a ogni sogno di potenza. Alberto Magnaghi (fondatore del movimento territorialista) parla di “autarchia cosmopolita”. L’idea, non è nuova, è quella della confederazione delle autonomie sociali locali. Swadeshi, diceva Gandhi, per indicare l’autodeterminazione dei villaggi. Comunanze, si potrebbero chiamare, ma non chiuse, in reciproco, paritario rapporto tra loro. Bioregioni. Per un’idea di bioumanesimo planetario. La decrescita, insomma, non è solo dematerializzazione, non è solo demercificazione. E’ una direzione di marcia che segue una idea di società, di individuo, di natura più correlati, più armoniosi.
http://www.articolo21.org/4090/notizia/crisi-paolo-cacciari-la-sfida-piu.html