Paolo Mieli è il Presidente del Comitato Storico per la rievocazione della prima guerra mondiale che il 22 maggio scorso ha tenuto, tra l’altro, un importante convegno internazionale dal titolo “La Grande Guerra: le origini e il mito”. A Mieli abbiamo chiesto con quale spirito è stato affrontato questo lavoro.
Cosa c’è oltre la ovvia commemorazione per un centenario così importante?
Di commemorativo non c’è praticamente nulla. Abbiamo approfittato della ricorrenza dei cento anni per un’opera molto meticolosa: venti dvd, a cui corrisponde anche un grande libro del Corriere dal titolo “La Grande Guerra” edito da Rizzoli (curato dallo stesso Mieli, ndr), sulla base di una interrogativo portante: cosa ne sanno oggi i ragazzi della prima guerra mondiale?
E abbiamo cercato di dare una risposta molto articolata ma anche esposta con un linguaggio chiaro. La rievocazione di questa guerra si celebrerà in cinque anni e dal momento che questo evento entrerà prepotentemente nelle case, nei convegni, nei temi di maturità per un periodo così lungo abbiamo cercato di dar vita ad una sorta di corso accelerato affinché possa maturare la consapevolezza storica di quegli anni.
Cosa aggiunge questo lavoro all’ampia storiografia sulla grande guerra?
Direi che aggiunge tutto. Perché il racconto che ne deriva non è la storia narrata per date e battaglie ma una storia che esamina ogni singolo aspetto di questa guerra che cambiò il mondo e ovviamente gli italiani. Quegli italiani che quando arrivarono nelle trincee non sapevano né leggere né scrivere e parlavano lingue diverse. Che erano vere proprie lingue altro che dialetti. Non si capivano proprio tra di loro. Curzio Malaparte racconta che quando a 17 anni era andato in guerra come volontario tutti rimanevano ammaliati nell’ascoltare gli ufficiali che parlavano. Li ascoltavano ma non capivano. Come se io e te andassimo a combattere in Corea.. E anche quei pochi che riuscivano ad afferrare qualcosa capivano “all’ingrosso” e in breve tempo dimenticavano tutto.
E non si aspettavano ovviamente che il conflitto potesse durare così a lungo.
E’ così. Coloro che andavano a combattere pensavano che la guerra sarebbe durata poco e invece si trovarono per quattro anni abbondanti dentro le trincee, a camminare sui cadaveri, fra odori pestilenziali. Mi ha sempre molto colpito che Gianni Stuparich (scrittore italiano, decorato della medaglia d’oro al Valor Militare, ndr) comincia a denunciare questo tipo di vita fra le trincee già l’11 giugno 1915, a pochi giorni dopo l’inizio della guerra. Vuol dire che si aspettavano che fosse una “cavalcata tranquilla”. E invece si trovarono in un’esperienza mai stata vissuta prima nella storia dell’umanità. Quattro anni di morti, morti cruente: occhi strabuzzanti, mandibole saltate, corpi dilaniati. Immagini atroci. Come vivere quattro anni all’inferno, un’esperienza che segnò la memoria e i destini di tutto il novecento.
Carlo Lucarelli si è soffermato, nell’intervista al Radiocorriere Tv su un particolare per lui molto significativo: la quantità spropositata di lettere spedite e ricevute dal fronte.
E’ uno degli aspetti più straordinari. Per quegli uomini in trincea l’unica risorsa era la scrittura. C’erano centinaia di assistenti, dame, preti che leggevano e scrivevano per conto dei familiari le lettere dal fronte. Quattro miliardi di lettere, davvero inimmaginabile. Scrivevano di continuo per consolarsi di una vita infame che stavano conducendo. E quando mancava la carta lo vivevano e lo denunciavano come una vera e propria carestia. La carta su cui scrivere era come il pane. Era l’elemento che li teneva in vita.
Quando si parla delle cause della prima guerra mondiale tutto si fa risalire all’assassinio dell’arciduca ereditario d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando e della consorte, avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914. Fu davvero il casus belli?
Fu la scintilla ma non si può certo attribuire lo scoppio della guerra a quell’episodio. Nei venti anni precedenti gli assassini di grandi personalità sono stati innumerevoli. Li cito a memoria: nel 1894 l’uccisione del presidente della Francia, nel 1896 lo Scia di Persia, nel 1897 il presidente dell’Uruguay e il primo ministro spagnolo, nel 1898 il presidente del Guatemala e l’imperatrice d’Austria. Nel 1899 il presidente della Repubblica dominicana. E ancora: nel 1900 l’assassinio di Umberto I di Savoia Re d’Italia, nel 1901 il presidente Usa, nel 1903 il re e la regina di Serbia, nel 1905 il primo ministro greco. Nel 1907 il primo ministro di Bulgaria, nel 1910 quello egiziano e un anno dopo quello russo. Nel 1912 ancora un primo ministro spagnolo. Infine nel 1913, un anno prima dell’assassinio di Francesco Ferdinando vengono uccisi il presidente del Messico e il re di Grecia. Il lungo elenco serve a spiegare che quando nel 1914 viene ucciso l’arciduca tutti i giornali occidentali danno la notizia come un fatto quasi irrilevante. Quell’evento fu una miccia ma non fu certo la ragione prima che scatenò il conflitto e questo ci deve servire, anche oggi per non essere tratti in inganno. Anche quando una guerra sembra impossibile da scatenarsi, se una scintilla trova il pagliaio giusto si può determinare un immane conflitto.
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