Un uomo prelevato dalla spiaggia di un campeggio del Cilento viene convinto a uscire dall’acqua e a farsi sedare, mettere su un’ambulanza e sottoporsi a un trattamento sanitario obbligatorio. Due ore dopo l’ingresso in ospedale viene legato al letto con cinghie che gli bloccano polsi e caviglie. Saranno ottantasette le ultime ore di Francesco Mastrogiovanni narrate attraverso le immagini disumanizzanti di nove videocamere di sorveglianza poste all’interno del reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno. La regista Costanza Quatriglio ripercorre i giorni e le notti dell’uomo nel film “87 ore”, una produzione DocLab, in collaborazione con Raitre e con il patrocinio della sezione italiana di Amnesty International. La terza rete Rai lo trasmette il 28 dicembre in seconda serata. Con la regista parliamo della genesi del film.
Com’è scattata la molla di questo film documentario?
Ho saputo della storia di Francesco Mastrogiovanni attraverso Luigi Manconi e Valentina Calderone dell’associazione a Buon Diritto che avevano parlato della tragica vicenda in un libro. Quando poi sono state pubblicate sul web le immagini della telecamera di videosorveglianza ci siamo confrontati sulla possibilità di poter raccontare questa storia e su come farlo.
Ha subito pensato che quel terzo occhio della videocamera potesse diventare il canovaccio del film?
E’ venuto spontaneo pensare che quelle immagini potessero essere la chiave per narrare la storia. E’ stata una scelta necessaria, l’unica possibile. Lui è stato per 87 ore “guardato” da quell’occhio meccanico che mentre lo osservava lo isolava. Occhio complice di un trattamento disumano e degradante. E quell’occhio era essenziale nel racconto. Questa cosa non l’ho capita subito ma lavorandoci e leggendo tutte le carte giudiziarie. Come la dichiarazione del primario del reparto che diceva di aver installato quelle videocamere per “monitorizzare i pazienti”…
E così i medici dell’ospedale monitorizzavano consapevolmente le torture ai danni di Mastrogiovanni. Non hanno mai pensato che quelle stesse immagini sarebbero potute finire un giorno nelle mani della giustizia e avrebbero potuto rappresentare una prova inequivocabile della loro colpevolezza?
Quello che abbiamo conosciuto delle immagini è un mondo chiuso che ha delle regole proprie, totalmente autonome e dove qualsiasi logica sembra estranea. Tutto è insensato oltre che barbaro. E’ insensato che gli portino da mangiare e lascino il cibo a pochi centimetri mentre lui è legato mani e piedi e non può mangiare. E’ insensato rifare il letto e mettergli il lenzuolo sopra come fosse già morto. Insensato è guardare un uomo boccheggiare finché non muore, o pulire il sangue per terra che esce dai polsi piuttosto che pulire l’uomo. Una procedura che sembra perfidamente automatica.
La disinvoltura e l’automatismo con cui medici e infermieri si muovevano, la coazione a ripetere, fa pensare che questo episodio di tortura non sia isolato. In quello come in altri ospedali…
Penso che quello che è accaduto a Mastrogiovanni trascenda anche la sua storia. E che ci sia qualcosa di esemplare, di simbolico. Quando ci si chiude in mondi impermeabili all’esterno, il diritto si può sospendere e quindi la persona che entra in un ambiente chiuso da quel momento in poi può diventare qualsiasi cosa nelle mani di chicchessia. Infermieri medici, poliziotti… chiunque ne abbia facoltà. E la videocamera diventa uno strumento punitivo. I pazienti vengono osservati in quanto oggetti da allontanare, da contenere…
L’uso delle immagini della videocamera lo rende un “film-verità”?
Noi vediamo attraverso un filtro, un occhio meccanico che ci restituisce una realtà robotica, rarefatta, indefinita, pixellata, di persone senza volto… La verità è un’altra cosa. E’ quello che è accaduto nel corpo di Francesco e che nessuna rappresentazione della realtà può restituirci perché le telecamere non ci fanno vedere un uomo che muore ma una “cosa” buttata sul letto…
Rispetto ai suoi film precedenti, ad esempio “Col fiato sospeso”, anch’esso frutto di una lunga documentazione, ci sono più elementi di continuità o di rottura?
Entrambi. C’è continuità nel metodo di lavoro, nella ricerca delle chiavi di lettura affinché una documentazione diventi materia per una narrazione. Ma è anche di rottura perché in questo caso il materiale non si poteva trasformare. Perché quello era. L’unica cosa su cui potevo lavorare era far diventare materia narrativa il materiale stesso. Il tradizionale potere evocativo cinematografico delle immagini in questo film è completamente bandito. Il corpo martoriato, legato, torturato… Quelle immagini sono talmente evidenti che non c’era niente da evocare…
Intervista di Stefano Corradino pubblicata sul Radiocorriere Tv