Stefano Melone, Valery Melis, Luca Sepe e altri 24 militari stroncati dall’esposizione all’uranio impoverito. Ad Orvieto un convegno internazionale e un osservatorio permanente
L’Italia dei misteri non è solo quella delle stragi impunite. Ustica, Bologna, Piazza Fontana, Piazza della Loggia… descrivono pagine tra le più oscure della storia della Repubblica. Ma il silenzio, l’omertà, l’occultamento delle prove sembrano appartenere anche ad altri capitoli di questo angosciante romanzo italiano. Uno di questi è sicuramente rappresentato dall’uranio impoverito, questa sostanza dagli effetti devastanti usata nella costruzione di aerei ed elicotteri, satelliti, navi e barche a vela, come schermante nelle stanze degli ospedali e nelle apparecchiature diagnostiche, persino nelle leghe per le otturazioni dei denti e nelle mazze da golf. Questa sostanza invisibile e letale che ha causato la morte di 27 militari, che ne sta logorando degli altri e che forse, sperando sinceramente di essere smentiti, si sta lentamente impadronendo dei corpi di qualche militare (o civile) reduce dall’ultimo conflitto nel golfo.
Ad Orvieto l’8 novembre 2001 muore Stefano Melone, maresciallo arruolato nell’Esercito nel 1977. Libano, Somalia, Albania, Kossovo le missioni che a partire dal 1996 lo hanno visto impegnato. Si ammala nel febbraio 2000. Ricoverato urgentemente all’ospedale S.Maria della Stella di Terni, gli viene riscontrata e diagnosticata una “Neoplasia Pleuro-Polmonare Maligna, patologia legata all’esposizione a sostanze radioattive e cancerogene, confermata dalla Commissione Medica Ospedaliera del Centro Militare di Medicina Legale del Ministero della Difesa.
Dal giorno della sua morte (ma già prima di allora) la sua famiglia ha ingaggiato una battaglia tenace per avere giustizia. Una battaglia non solo per Stefano ma per tutti coloro che hanno servito lo Stato e che dallo Stato stesso, dalle alte istituzioni militari, e da gran parte della stampa, sono stati dimenticati. “Per i nostri morti al servizio dello Stato che non possono parlare e quindi non possono accusare, abbiamo noi familiari il dovere di farlo” scriveva alcuni mesi fa la vedova Melone.
E la battaglia non è stata vena. Il Ministero della Difesa è stato condannato a risarcire un miliardo delle vecchie lire alla famiglia del maresciallo elicotterista. Il tribunale – siamo ancora in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza – ha individuato un nesso tra la malattia riportata da Stefano Melone e le missioni militari che ha svolto all’estero. E questo risarcimento rappresenta una svolta senza precedenti. Per la prima volta, dopo anni di azioni giudiziarie, interrogazioni parlamentari, manifestazioni spontanee, inchieste giornalistiche, è stato riconosciuto che la partecipazione di un militare ad uno e più conflitti, l’esposizione senza protezioni a sostanze cancerogene, ha stroncato drammaticamente una vita. Per la prima volta in Italia si parla di uranio impoverito come possibile responsabile di una grave forma tumorale che ha colpito un militare in una delle sue missioni all’estero.
Questa sentenza può rappresentare un appiglio importante per gli altri, per coloro che stanno tuttora vivendo il calvario causato da questo linfoma incurabile.
E per le famiglie dei 27 militari deceduti in questi anni.
A gennaio di quest’anno è morto il caporalmaggiore Valery Melis. Aveva partecipato a missioni di pace in Albania e Kosovo. Il suo cuore giovane, 26 anni appena, cessa di battere dopo un coma irreversibile per la leucemia. Secondo i familiari, che hanno chiesto allo Stato il riconoscimento della causa di servizio, il caporalmaggiore si sarebbe ammalato proprio in Kosovo, per avere inalato polveri radioattive. Proiettili all’uranio impoverito affermano, anche se i vertici militari Sardi hanno spiegato che Melis non era stato inviato in luoghi dove si è sparato.
Poche settimane fa l’ennesima tragica scomparsa. Quella di un altro giovane, coetaneo di Melis, Luca Sepe, la ventisettesima vittima dell’uranio impoverito. Aveva contratto un linfoma nel 2001, poco dopo essere rientrato da una delle missioni nell'ex Jugoslavia. E nonostante il male che lo costringeva a cicli di chemioterapie, aveva voluto partecipare nello scorso novembre ai funerali dei carabinieri morti a Nassiriya.
E intanto si leva, assordante, il grido di disperazione e la rabbia di chi ha contratto un tumore scoperto al rientro da una missione e che sente, inesorabilmente, che la fine è vicina: Marco Diana, 33 anni, sardo. Mezzo rene e un pezzetto di fegato, l’impossibilità di avere figli, una tosse che lo divora lentamente e la memoria che vacilla. “Non so se è stato l’uranio a ridurmi così” afferma Diana. “Non ho le prove. Ma ho le prove che il cancro che mi porto dentro e che presto mi ucciderà l’ho preso in servizio. I nostri soldati usano ancora sostanze cancerogene: oggi tocca a me, ieri è toccato ad un altro, che è morto. E domani, quanti altri?”
La morte di Stefano, Valery, Luca, la condizione tragica di Marco Diana ha riacceso la polemica sui possibili devastanti effetti dell’uranio impoverito sulla salute dei soldati, ammalatisi al rientro dalle operazioni militari, e sui 27 decessi. Numerosi parlamentari, dai Verdi ai Ds, dalla Lega a Rifondazione hanno chiesto al Governo di fare chiarezza su queste vicende ancora per molti versi oscure.
Da Orvieto, su iniziativa dell’associazione Articolo21 è stata lanciata la proposta, immediatamente accolta dalla amministrazione comunale, di creare un osservatorio permanente, sui rischi da uranio impoverito, dedicato proprio a Stefano Melone. Per il prossimo mese di ottobre si terrà, proprio nella città umbra, un convegno di livello internazionale per mantenere alta l’attenzione su questo tema. Per approfondire gli aspetti tecnico scientifici legati. alla salute dei militari e dei civili operanti e residenti in luoghi dove sono state utilizzate armi all’uranio impoverito.
Per conoscere la verità. Per ritrovare la speranza nella giustizia.
”Sono riuscita a portare a termine con l’aiuto di amici veri e leali l’obiettivo che tu volevi raggiungere”, ha scritto in una lettera toccante Paola, la vedova Melone. “Il tuo sacrificio estremo ora potrà essere di aiuto per tutti quei militari che si trovano ora nelle tue condizioni. La speranza per loro sarà ancora più forte, perché se prima non avevano un faro che illuminava la strada giusta, ora potranno seguire il tuo esempio per avere un giusto riconoscimento… Niente e nessuna moneta potranno restituirti a noi, ma il risarcimento morale, sì, ci ripaga molto… Combattere, lottare per far trionfare la giustizia. Era il tuo credo, Stefano, ed io, grazie a te, alla forza di volontà che mi hai trasmesso, ci sono riuscita. Ciao Stefano! Tua moglie Paola”
(Stefano Corradino – Micropolis)