Leon Battista Alberti, grande architetto genovese del 1400 descriveva le città come grandi case e le case come piccole città.
Ai suoi tempi i centri urbani erano ben diversi dai nostri. Mura e porte erano come abitazioni monumentali nelle quali, chi rientrava troppo tardi, doveva bussare perché queste gli venissero aperte. A più di mezzo millennio di distanza non sono solo le città ad essere cambiate ma anche la filosofia che le ispirava: abbandonati gli spazi aperti, l’uomo moderno sembra inesorabilmente deciso a vivere nei suoi edifici: uffici, negozi, appartamenti. Televisore (uno ogni camera) e satellite, cellulare (uno e mezzo di media a persona), computer, palmare, internet… Il gioco è fatto e con esso la sensazione di avere tra le mani non una ma mille, un milione di città e di conoscerne vita, storia e tradizioni.
In realtà è un’illusione. E cosa ancora più grave, la brama (virtuale) di conoscenza del mondo può finire per tradursi in una sorta di “rimozione” della propria realtà abitativa. Roba che lasciamo agli psicologi. Tuttavia è interessante studiare come i cittadini vivono il rapporto con la città che ha dato loro i natali o che li ospita.
Ad Orvieto si ha l’impressione che la città abbia spesso subìto gli eventi artistici, e li abbia accolti con diffidenza. Come un fatto esterno, come se non gli appartenessero. Come calati dall’alto:
siamo all’undicesima stagione di Umbria Jazz Winter, l’edizione invernale del noto festival musicale. Tutti gli anni, da ogni parte del mondo, i ‘jazzofili’ scelgono di trascorrere la settimana del capodanno ad Orvieto, questa vecchia città contesa tra storia medioevale e modernità, scandita per 5 giorni da una vecchia musica in perfetto equilibrio tra tradizione e sperimentazioni. Questi “immigrati del jazz” (ai quali speriamo che Bossi non chieda alcun visto d’ingresso né impronte digitali) affolleranno le vie principali della città anche nelle ore notturne. E la città come risponderà? Le vetrine del corso verranno sbarrate dalle otto di sera o saranno quantomeno illuminate così da evitare ai turisti l’idea di una città ‘sotto coprifuoco’? I bar resteranno aperti fino a tardi? I mezzi di trasporto pubblici collegheranno anche in tarda notte il centro storico con gli alberghi?
Una città d’arte deve essere sentita a tutti i livelli, a partire dall’industria del turismo. Ma ci vuole anche un filo conduttore comune che leghi le esperienze artistiche ai bisogni reali della città, un “marchio”, una volontà di “fare sistema”, dei progetti e degli eventi. Da Umbria Jazz allo Slow Food, alla stagione teatrale…
A questo scopo potrebbe contribuire l’università, che non è un contenitore indistinto o sconnesso dal territorio ma è una scelta che, se pensata in un logica “integrata come è accaduto nel passato per località come Siena o Urbino, trasforma radicalmente la fisionomia di una città. Incide sull’indotto. Apre le menti e al tempo stesso sviluppa l’economia.
In questo senso per “Orvieto, città degli studi” (questo lo slogan utilizzato) si deve intendere una scelta e una prospettiva di integrazione della città, del suo ambiente, della storia con lo studio. Studiare ad Orvieto è già di per sé una grande occasione per arricchirsi (non pensiamo per un attimo ai soldi, stiamo parlando di cultura!) e una pratica non indifferente alla bellezza. Ma all’università bisogna crederci fino in fondo. Serve una maggiore consapevolezza generale del valore culturale e di sviluppo che rappresenta. E servono ulteriori ‘accelerazioni politiche’ che consentano ad Orvieto di diventare Polo Universitario e, forte di una indiscussa qualità della vita e di una privilegiata posizione geografica, di rivaleggiare con città ben più grandi in condizioni di pari dignità.
Perché questa Urbs Vetus proiettata verso la modernità ha un valore aggiunto: è una città d’arte. Nei suoi spazi, nelle sue atmosfere, nei suoi silenzi, la creatività può diventare necessità, passione e vita.
(Stefano Corradino – Micropolis)